LA CORTE DEI CONTI 
 
    Ha  pronunziato   la   seguente   ordinanza   nel   giudizio   di
responsabilita' iscritto al n.  25693  del  registro  di  segreteria,
promosso dal Procuratore regionale avverso il  sig.  Nicola  Amoroso,
nato a Domicella (AV) il 20 gennaio 1953, residente in Basiglio (MI),
in via Longobardi - Res. Filare n. 412. 
    Visti gli atti e documenti di causa; 
    Uditi, nella pubblica udienza del giorno  19  novembre  2009,  il
consigliere relatore dott. Piergiorgio Della Ventura ed il  sostituto
Procuratore generale dott. Gaetano Berretta, non  intervenuto  e  non
rappresentato il convenuto. 
 
                                Fatto 
 
    L'odierna vertenza riguarda una fattispecie  di  danno  erariale,
ascrivibile ad avviso del p.m. attore  alla  condotta  dell'ispettore
della Polizia di Stato Nicola Amoroso. La  vicenda  aveva  riguardato
una serie di episodi nei quali l'interessato, abusando della qualita'
e dei poteri di ispettore della Polizia di Stato, aveva  ottenuto  di
poter accedere gratuitamente in locali aperti al pubblico. 
    Questi i fatti. 
    Espone l'atto introduttivo che, nel periodo dicembre 2001-gennaio
2003 che l'ispettore della Polizia di Stato Nicola Amoroso si  recava
saltuariamente presso il locale «Trattoria  Pescatori  e  Cacciatori»
sito in Giussago (fraz. Casatico) nelle serate del sabato  sera,  per
cenare in compagnia di altre persone e poi concludere la serata nella
sala da ballo attigua a quella ove venivano consumati i  pasti;  sala
allestita per ballare con la musica di un'orchestrina. 
    I pasti venivano regolarmente saldati, mentre per l'accesso  alla
sala da  ballo  l'ispettore  aveva  la  consuetudine  di  esibire  il
«cartellino» che lo qualificava come  appartenente  alla  Polizia  di
Stato, con la motivazione che «non era tenuto a pagare» e di  «essere
in servizio». 
    L'ispettore della Polizia aveva, altresi', proposto alla titolare
del locale di non  far  pagare  il  biglietto  alle  persone  in  sua
compagnia, ma ella non aveva accettato tale richiesta, adducendo  che
i controlli effettuati dagli addetti Siae  avrebbero  potuto  crearle
dei problemi qualora avessero riscontrato che le signore erano  prive
di biglietto. La titolare del locale  asseritamente  acconsentiva  di
non far pagare il biglietto all'ispettore della Polizia di Stato  per
evitare di litigare. 
    Nella serata del 25 gennaio  2003  l'ispettore  Amoroso  era  nel
locale, su invito di un'amica, per festeggiare  il  compleanno  della
stessa. Nella medesima serata, dopo aver  consumato  la  pizza  nella
sala da pranzo l'amica, che aveva invitato l'ispettore e altri amici,
provvedeva, ignara della prassi oramai consolidata, ad acquistare per
tutti i  biglietti  di  ingresso  nella  sala  da  ballo;  mentre  la
compagnia si apprestava ad  entrare  nella  sala,  l'ispettore  della
Polizia si accorgeva che l'amica aveva  acquistato  un  biglietto  di
ingresso anche per lui e a  questo  punto,  evidentemente  risentito,
tornava alla  cassa  dalla  titolare  del  locale  e,  gettandole  il
biglietto addosso, inveiva contro la predetta con la  seguente  frase
«io non sono tenuto a pagare il biglietto, lei lo sa meglio  di  me»,
aggiungendo, altresi', che «avrebbe fatto chiudere il locale»  e  che
«avrebbe telefonato alla polizia». 
    Con sentenza penale n. 244 del 24 maggio 2006 l'ispettore Amoroso
era stato condannato alla pena di anni 1 e 10 mesi di reclusione, con
correlativa sospensione condizionale e la non menzione della condanna
per il reato  di  cui  all'art.  317  c.p.  (concussione),  oltre  al
risarcimento dei danni subiti dalla parte civile a  titolo  di  danno
morale per euro 800,00 e a euro 3.500,00 a titolo di rifusione  delle
spese di costituzione, rappresentanza e  difesa,  oltre  al  rimborso
delle spese generali e oneri accessori. 
    Con sentenza n. 1428 del 4 febbraio 2009, la Corte  d'appello  di
Milano, in riforma della sentenza di condanna di I  grado,  assolveva
l'imputato, con la motivazione: «il fatto non costituisce reato». 
    Il  Procuratore  regionale  riteneva  che  dalla  vicenda   sopra
descritta   sia   derivato   un    danno    patrimoniale    indiretto
all'Amministrazione, consistente nella perdita di prestigio e lesione
di immagine della P.A. - danno che in un primo momento il p.m. stesso
aveva quantificato in via equitativa in euro  6.301,00  (pari  a  tre
mensilita' di stipendio decurtato della somma di euro  800,00,  quale
somma a titolo di risarcimento del  danno  riconosciuta  dal  giudice
nella sentenza n. 244/2006) - a causa della condotta posta in  essere
dal menzionato ispettore della Polizia di Stato. Pertanto,  con  atto
del 24 novembre 2008  la  medesima  Procura  regionale  rivolgeva  al
presunto responsabile l'invito a  fornire  le  proprie  deduzioni  in
merito alla vicenda. 
    In data 21 gennaio 2009 e  26  gennaio  2009  sono  pervenute  le
deduzioni difensive, in cui si rappresenta che con sentenza n.  1428,
in data 4 febbraio 2009, la Corte d'appello  di  Milano,  in  riforma
della sentenza di condanna di I grado, ha assolto l'imputato, perche'
«il fatto non costituisce reato». 
    In data 1° aprile 2009 si e' svolta l'audizione dell'interessato.
In tale sede il sig. Amoroso ha  dichiarato  a  verbale  che:  «Prima
dell'episodio che ha  formato  oggetto  del  procedimento  penale  il
sottoscritto era  solito  frequentare  il  ristorante  "Cacciatori  e
Pescatori Bertazzi". Tale locale era frequentato da numerosi soci che
praticavano la caccia e la pesca a livello amatoriale. Nel  tempo  si
erano formate opposte fazioni  che  ritenevano  di  gestire  in  modo
diverso il locale. In particolare uno dei soci, Franco Casarin  (oggi
deceduto), aveva fatto notare al sottoscritto alcune irregolarita' di
carattere amministrativo nella gestione del locale.  Il  sottoscritto
aveva ritenuto doveroso informare il dirigente del proprio ufficio di
tale situazione. Proprio a causa di questa denuncia, la proprietaria,
sig.ra Bertazzi, in un successivo incontro - dopo due anni circa - lo
aveva  aspramente  criticato  e  apostrofato  come   "l'infame".   Le
successive vicende anche di carattere giudiziario si configurano come
una ritorsione nei suoi riguardi». 
    A sostegno di tale descrizione dei fatti, in  sede  di  audizione
l'interessato ha depositato  ulteriore  documentazione:  copia  della
denuncia del  13  marzo  2001  inoltrata  dall'ispettore  Amoroso  al
Dirigente del Commissariato  di  Polizia  di  Lambrate;  copia  degli
scontrini  fiscali  relativi   all'ingresso   nel   locale   e   alle
consumazioni effettuate nella giornata oggetto di indagine; copia del
verbale di assunzione di informazioni del giorno 8  luglio  2003,  ex
articoli 391-bis e 391-ter c.p.p. 
    In ordine alle contestazioni formulate con  l'invito  l'ispettore
Amoroso ha proposto le seguenti eccezioni difensive: 
        inammissibilita' del procedimento amministrativo-contabile  a
seguito di sentenza penale di  appello  di  assoluzione  perche'  «il
fatto non costituisce reato»; 
        insussistenza del danno all'immagine. 
    Le su dette  eccezioni  e  deduzioni  difensive  non  sono  state
ritenute, dal p.m., idonee a far  venire  meno  la  necessita'  della
citazione in giudizio, che e' stata depositata in data 8 maggio 2009. 
    Per prima cosa, l'atto di citazione si preoccupa di confutare  le
deduzioni formulate dal convenuto in sede di invito, ove egli afferma
l'insussistenza  del  comportamento  dannoso,  con  riferimento  alla
sentenza n. 1428/2007 della Corte di Appello di  Milano,  che  lo  ha
assolto in applicazione dell'art. 530, comma 2, del c.p.p., dal reato
ascrittogli perche' «il fatto non costituisce reato»; circostanza che
per  il  convenuto  determinerebbe  l'inammissibilita'  del  presente
procedimento ammistrativo-contabile. 
    Ricorda in proposito il Procuratore che, secondo gli artt. 652  e
654 c.p.p.,  il  giudicato  penale  di  assoluzione  (rispettivamente
nell'ambito del giudizio civile di danni -  nel  caso  dell'art.  652
c.p.p. - e nell'ambito degli altri giudizi civili nell'ipotesi di cui
all'art. 654 c.p.p) ha effetto preclusivo nel  giudizio  civile  solo
quando  contenga  un  effettivo  e   specifico   accertamento   circa
l'insussistenza del fatto o della partecipazione dell'imputato, e non
anche quando l'assoluzione sia determinata dal  diverso  accertamento
dell'insussistenza  di  sufficienti  elementi  di  prova   circa   la
commissione del fatto o  l'attribuibilita'  di  esso  all'imputato  e
cioe' quando l'assoluzione sia stata pronunziata  a  norma  dell'art.
530, comma 2 c.p.p. (cita Cass. 20 settembre 2006, n. 20325; Cass. 1,
30 agosto 2004, n. 17401; Cass. 19 maggio  2003,  n.  7765;  Cass.  2
novembre 2000, n. 14328). 
    Inoltre,  l'accertamento  contenuto  in   una   sentenza   penale
irrevocabile  di  assoluzione  pronunciata  perche'  «il  fatto   non
costituisce reato» non  avrebbe  efficacia  di  giudicato,  ai  sensi
dell'art. 652 c.p.p., nel giudizio civile di danno, nel quale compete
al giudice il potere di  accertare  autonomamente,  con  pienezza  di
cognizione, i fatti dedotti in giudizio, e di pervenire a soluzioni e
qualificazioni non vincolate  all'esito  del  processo  penale  (cita
Cass. 14 febbraio 2006, n. 3193; Cass. 26 ottobre 2004, n. 20751). 
    Nel caso di specie, ricorda ancora il p.m.,  l'ispettore  Amoroso
e' stato assolto in sede di appello a  norma  dell'art.  530  c.p.p.,
comma 2, perche' «il fatto non costituisce reato»; ma tale  pronuncia
non precluderebbe al giudice contabile di valutare  autonomamente  il
fatto, sotto tutti i profili, nel presente procedimento. 
    Nessuno  dubbio  sussisterebbe  poi  sulla  imputabilita'   della
condotta lesiva dell'ispettore della Polizia di  Stato:  l'esibizione
del tesserino, il qualificarsi come  «poliziotto»  e  come  tale  «in
servizio» all'atto di entrare nella sala da ballo  avrebbe  integrato
un comportamento tale da  indurre  la  titolare  del  locale  a  fare
accedere l'ispettore gratis, nel timore che, se ella avesse insistito
a pretendere il pagamento del biglietto, avrebbero  potuto  derivarne
conseguenze negative alla conduzione  del  locale,  come  infatti  e'
avvenuto la prima ed unica sera in cui il  biglietto  dell'ispettore,
sia pure a sua insaputa, era stato pagato. 
    L'ispettore Amoroso, con il proprio comportamento e le  esplicite
minacce, ha secondo l'Accusa dato corpo a  quei  timori  paventati  e
sino ad allora scongiurati dalla  titolare  del  locale,  soggiacendo
all'ingiusta, non altrimenti evitabile, richiesta di  non  pagare  il
biglietto. 
    Nel caso in esame, sussisterebbero tutti gli elementi strutturali
della fattispecie del danno  erariale;  Ed  infatti,  lo  svolgimento
processo  che  e'  scaturito  dalla  vicenda  ha  indubbiamente  leso
l'immagine della P.A. determinando - nella percezione dei cittadini e
degli stessi dipendenti  pubblici  -  il  venir  meno  della  fiducia
nell'Amministrazione Pubblica. 
    Il relativo danno, che in sede di invito  era  stato  determinato
dal p.m. in  euro  6.301,00,  pari  a  tre  mensilita'  di  stipendio
decurtato della somma  di  euro  800,00  (riconosciuta  a  titolo  di
risarcimento, alla parte offesa, dal giudice penale di primo  grado),
nell'atto di citazione viene quantificato nella minore somma di  euro
4.800,00, pari al sestuplo della  somma  liquidata  in  sede  civile,
ritenendo il p.m. maggiormente valido tale parametro, utilizzato  dal
giudice ordinario per il risarcimento alla persona offesa dal reato. 
    Tale  tipologia  di  danno,  ad  avviso   del   Procuratore,   si
concretizza nella lesione del bene giuridico «prestigio  della  P.A.»
in se'  considerato,  non  essendo  necessario,  ai  fini  della  sua
configurazione, che si siano prodotte erogazioni di denaro in seguito
alla lesione; la stessa giurisprudenza, ricorda, ha affermato che  la
prova delle spese necessarie al ripristino del danno all'immagine non
e' condizione necessaria per ottenere risarcimento del  danno  subito
(cita Corte dei conti, sez. giur. Veneto, 7 novembre 2006, n. 927). 
    Ritiene poi il Requirente che l'atteggiamento psicologico che  ha
caratterizzato il comportamento del sig.  Amoroso  rivesta  i  tratti
caratteristici del dolo. Ricorda in proposito il p.m. che  l'elemento
che caratterizza il dolo e' la previsione e la  volonta'  dell'evento
dannoso, da parte dell'agente, come conseguenza della propria  azione
od omissione; attualmente e' pacificamente accettata la  c.d.  teoria
della volonta', secondo la quale  nella  volonta'  rientra  non  solo
l'intenzione, ma anche l'accettazione del  rischio  della  causazione
dell'evento. 
    Di conseguenza, nel  concetto  di  dolo  rientrano  sia  il  dolo
diretto (quando  la  volonta'  ha  perseguito  direttamente  l'evento
tipico) sia il dolo indiretto (la volonta' non si dirige direttamente
verso l'evento, ma l'agente lo  accetta  come  conseguenza  eventuale
della propria condotta). 
    Nel caso di  specie,  afferma  l'Accusa  che  il  convenuto  agi'
rappresentandosi la possibilita' che il proprio comportamento potesse
determinare una lesione del decoro della P.A. e accetto'  il  rischio
che tale lesione  si  potesse  verificare:  sussisterebbe  quindi  la
figura del dolo eventuale. 
    La dinamica degli eventi - collocati in un apprezzabile lasso  di
tempo - induce il p.m. attore a ritenere che l'Amoroso abbia avuto la
chiara percezione dell'illiceita' del  proprio  comportamento  e  che
tale condotta abusiva potesse  ledere  l'immagine  della  Polizia  di
Stato. Anche se l'immediata intenzione era solo quella di  fruire  di
ingressi gratuiti nella sala da ballo, non potrebbe essergli sfuggito
che tale condotta si stava realizzando mediante un uso abusivo  della
propria qualifica  di  ispettore  della  Polizia  di  Stato:  e  tale
condizione  psicologica   di   accettazione   del   rischio   integra
pienamente, sempre ad avviso del Requirente,  gli  estremi  del  dolo
eventuale. 
    In ogni caso, prosegue la citazione, anche se  il  convenuto  non
avesse  avuto  la   convinzione   che   dal   proprio   comportamento
sarebbe derivato   un   danno   all'immagine,   nondimeno   la    sua
realizzazione dovrebbe comunque essergli imputatata a titolo di colpa
grave. 
    Con decreto in data 22  maggio  2009,  il  Presidente  di  questa
Sezione ha determinato l'addebito a carico del convenuto nella  somma
di € 3.000; cio' in applicazione dell'art.  55  del  r.d.  12  luglio
1934, n. 1214,  e  succ.  mod.,  che  prevede  la  facolta',  per  il
Presidente della Sezione giurisdizionale, di provvedere con  il  c.d.
procedimento monitorio. Con lo stesso provvedimento e' stata fissata,
per il caso di mancata accettazione dell'addebito, l'udienza  del  19
novembre 2009. 
    Il convenuto con telegramma del 19 luglio 2009, ha dichiarato  di
non poter pagare. 
    Non ha fatto seguito alcun atto di costituzione in giudizio. 
    All'udienza dibattimentale odierna, assente il convenuto, il p.m.
ha ribadito la prospettazione accusatoria di  cui  in  citazione.  Ha
confermato la sussistenza, nella presente fattispecie,  di  un  danno
all'immagine   dell'amministrazione   pubblica:   il    comportamento
gravemente scorretto del convenuto, che intendeva abusare del proprio
status di  agente  di  p.s.  per  entrare  gratis  in  discoteca,  e'
indiscusso, come pure e' certa l'eco negativa  della  vicenda  presso
l'opinione pubblica locale; e cio', a prescindere  dalla  sussistenza
di un reato. 
    Orbene,  prosegue   il   Requirente,   la   novella   legislativa
recentemente intervenuta (art. 17, comma 30-bis del d.l. n.  78/2009,
conv. con legge n. 102/2009  e  succ.  mod.)  non  consente  piu'  il
perseguimento di tale tipologia  di  danno  erariale  in  assenza  di
reato, come nel caso di specie. 
    Eccepisce,  pertanto,  l'illegittimita'  costituzionale  di  tale
disposizione, per violazione di varie norme della Carta fondamentale.
Innanzi tutto, viene evocato il contrasto  con  l'art.  77,  comma  2
Cost., poiche' sarebbe stata  utilizzata  la  decretazione  d'urgenza
senza che ricorressero i presupposti di straordinaria  necessita'  ed
urgenza (a nulla rilevando che, in questo caso, la norma  interessata
fosse stata inserita nella legge  di  conversione  da  un  successivo
emendamento). Viene denunziata anche la violazione dell'art. 3 Cost.,
ritenendo il Procuratore che l'art. 17, comma 30-bis cit.,  violi  il
canone di razionalita' legislativa, laddove limita  solo  per  talune
fattispecie la perseguibilita'  di  un  danno  erariale;  se  poi  si
volesse intendere che in dette ipotesi il danno resterebbe pur sempre
perseguibile, ma innanzi all'A.G.O. allora sarebbe violato l'art.103,
comma 2 Cost.,  sulla  giurisdizione  della  Corte  dei  conti  nelle
materie di contabilita' pubblica, come  quella  in  esame.  La  norma
ordinaria e' anche  sospettata  di  violazione  dell'art.  24  Cost.,
poiche' comprime immotivatamente le possibilita' di agire in giudizio
per il p.m. contabile. Da ultimo, e' denunziata lesione del principio
di cui all'art. 97 Cost., perche' viene limitata la possibilita', per
il giudice contabile, di perseguire i fatti dannosi, suscettibili  di
comportare inefficienza delle strutture pubbliche. 
 
                            D i r i t t o 
 
    1. - Il presente  giudizio  riguarda  una  fattispecie  di  danno
all'immagine per la pubblica amministrazione  (nella  specie,  quella
della pubblica sicurezza)  causato,  secondo  la  prospettazione  del
Procuratore regionale, dalla condotta di un ispettore  della  Polizia
di Stato che, abusando della propria  qualita'  e  dei  suoi  poteri,
pretendeva (e aveva ottenuto)  di  poter  accedere  gratuitamente  in
locali aperti al pubblico. 
    La vicenda aveva condotto ad un giudizio penale per il  reato  di
cui agli artt.  81  e  317  c.p.  (concussione),  risoltosi  con  una
condanna dell'imputato in primo grado e con l'assoluzione in appello,
con la formula «il fatto non  costituisce  reato».  I  fatti  avevano
avuto anche una certa eco sugli organi di stampa. 
    In relazione a cio', la Procura presso questa  Sezione  regionale
aveva  attivato  il  giudizio  di   responsabilita'   nei   confronti
dell'agente  di  Polizia  interessato,  per  il  ristoro  del   danno
all'immagine   che   tali   episodi    avrebbero    comportato    per
l'amministrazione. 
    2. - E' tuttavia intervenuta,  nelle  more  della  decisione  del
merito, la novella normativa di  cui  all'art.17,  comma  30-ter  del
decreto-legge lº luglio 2009, n. 78, convertito, con legge  3  agosto
2009, n. 102, come modificato dall'art. 1, comma 1  lettera  «c»  del
decreto-legge 3 agosto 2009, n. 103, convertito, con legge 3  ottobre
2009,  n.  141,  il  quale,  ai  periodi  secondo  e  seguenti   reca
testualmente: «Le procure della Corte dei conti  esercitano  l'azione
per il risarcimento del danno all'immagine nei soli casi e  nei  modi
previsti dall'articolo 7 dalla legge 27 marzo 2001,  n.  97.  A  tale
ultimo fine, il decorso del termine di prescrizione di cui  al  comma
2, dell'articolo 1 della legge 14 gennaio 1994,  n.  20,  e'  sospeso
fino  alla  conclusione  del  procedimento  penale.  Qualunque   atto
istruttorio  o  processuale  posto  in  essere  in  violazione  delle
disposizioni di cui al presente  comma,  salvo  che  sia  stata  gia'
pronunciata sentenza anche non definitiva alla  data  di  entrata  in
vigore della legge di conversione del presente decreto, e' nullo e la
relativa nullita' puo'  essere  fatta  valere  in  ogni  momento,  da
chiunque  vi  abbia  interesse,  innanzi  alla   competente   sezione
giurisdizionale  della  Corte  dei  conti,  che  decide  nel  termine
perentorio di trenta giorni dal deposito della richiesta». 
    Appare chiaro che tale sopravvenuta disposizione, comunque la  si
voglia  intendere  ed  interpretare,  limita  significativamente   le
possibilita' di intervento del giudice contabile  nella  materia,  ai
soli casi e modi contemplati nell'art. 7 della legge n.  97/2001,  ai
sensi del quale: «La sentenza irrevocabile  di  condanna  pronunciata
nei confronti dei dipendenti indicati nell'articolo 3 per  i  delitti
contro la pubblica amministrazione previsti nel capo I del titolo  II
del libro secondo del  codice  penale  e'  comunicata  al  competente
procuratore regionale della Corte dei conti affinche' promuova  entro
trenta giorni l'eventuale procedimento di responsabilita'  per  danno
erariale nei confronti del condannato. Resta  salvo  quanto  disposto
dall'articolo 129 delle  norme  di  attuazione,  di  coordinamento  e
transitorie del codice di procedura  penale,  approvate  con  decreto
legislativo 28 luglio 1989, n. 271». 
    In altri termini, il legislatore della novella ha  stabilito  che
un danno all'immagine di una struttura pubblica potra' sussistere  ed
essere perseguibile innanzi a questo giudice contabile, unicamente se
derivante da reato: v., al riguardo, la (pur  ampia)  interpretazione
che della norma ha fornito questo stesso giudice  nella  sentenza  n.
641 del 20 ottobre 2009. 
    Se cosi' e' - e non e' revocabile in  dubbio  che  lo  sia  -  al
Collegio non resterebbe altro, una volta  accertata  l'applicabilita'
delle nuove norme alla presente vertenza, che  declinare  la  propria
giurisdizione in proposito. 
    Pur  tuttavia,  prima  di  giungere  ad  una   simile   soluzione
interpretativa, occorre farsi carico dei dubbi di  costituzionalita',
richiamati dal p.m. in udienza (ma suscettibili anche di scrutinio ex
officio da  parte  del  giudice)  che  la  su  riferita  disposizione
normativa evoca. 
    3. - A tale proposito, e' necessario  innanzi  tutto  verificare,
come gia' accennato, la rilevanza, per il giudizio  in  corso,  della
norma in questione. 
    3.1. - Sotto un primo aspetto - per la verita' non accennato  dal
p.m., ma che comunque occorre scrutinare - potrebbe sorgere il dubbio
sull'effettiva applicabilita' della normativa di cui al decreto-legge
n. 78/2009 e successive modifiche al presente giudizio, il quale  era
pendente gia'  prima  della  sua  entrata  in  vigore:  trattasi,  in
sostanza, di precisare se la norma in esame abbia natura  sostanziale
o processuale. 
    Al riguardo, e' stato ampiamente chiarito da tutte  le  pronunzie
di questa Corte dei conti sinora intervenute  (v.,  oltre  al  citato
precedente   di   questa   Sezione,   anche    Corte    dei    conti,
Sezione giurisdizionale Campania,  14  ottobre  2009,  n.  369  e  27
ottobre 2009, n. 377;  Sezione  giurisdizionale  Veneto,  14  ottobre
2009, n. 673; Sezione giurisdizionale Sicilia, 14  ottobre  2009,  n.
218) che la norma contestata - oltre  che  influire  sui  presupposti
sostanziali,  cioe'   sulla   configurabilita'   stessa   del   danno
all'immagine - incide direttamente sulla  legittimazione  processuale
del Requirente contabile ad agire a tutela  delle  finanze  pubbliche
lese dai corrispondenti comportamenti illeciti; e' pertanto  evidente
il carattere processuale della disposizione, che come tale e'  dunque
immediatamente applicabile a tutti i  giudizi  in  corso  al  momento
della  sua  entrata  in  vigore.  Del  resto,   a   confermare   tale
interpretazione e' sufficiente l'esame  del  quarto  periodo  del  su
riportato comma 30-ter, il quale esclude l'applicabilita' della norma
nella sola ipotesi in cui sia stata gia'  emessa  una  sentenza,  sia
pure non definitiva: per cui, e' evidente che in tutti gli altri casi
pendenti, compreso quello in corso, la norma non puo' che applicarsi. 
    3.2. - E' poi sicuro, come del resto gia'  sopra  accennato,  che
alla  definizione  della  presente  vertenza  non  possa   pervenirsi
indipendentemente dall'utilizzo della disposizione in argomento. 
    Invero, il p.m. regionale ha  citato  in  giudizio  il  convenuto
unicamente per il danno all'immagine, ipotizzato in relazione  ad  un
comportamento che e' certo nella sua materialita', ma  del  quale  e'
stata nel contempo espressamente esclusa  (con  sentenza  passata  in
cosa giudicata) la configurazione penale: dunque, si  tratta  di  una
condotta illecita, astrattamente suscettibile di causare un danno  di
tal genere; tuttavia, l'esistenza in concreto di detto danno dovrebbe
ora essere esclusa proprio in virtu'  della  norma  sopravvenuta  (la
quale, appunto, impedisce in radice che  comportamenti  illeciti,  ma
non costituenti reato, possano causare un danno per l'immagine di  un
ente pubblico). 
    Non vi sono dubbi, in conclusione, della piena  sussistenza,  per
il  presente   giudizio,   della   rilevanza   della   questione   di
costituzionalita' della norma denunziata. 
    4. - Occorre,  a  questo  punto,  valutare  se  la  questione  di
costituzionalita' non sia manifestamente infondata, in  relazione  ai
vari profili dedotti dal Requirente o evocabili d'ufficio  da  questo
Giudice. 
    Al riguardo, ritiene invece questo Giudice che  le  nuove  norme,
sopra richiamate, si pongano in contrasto con piu'  di  un  principio
costituzionale. 
    5. - Un primo, evidente profilo di incostituzionalita' del citato
art. 17, comma 30-ter, periodi  secondo  e  terzo,  si  pone  secondo
questo Collegio in relazione all'articolo 2 della Carta fondamentale,
il quale riconosce e garantisce i diritti inviolabili  dell'uomo  sia
come singolo che nelle  formazioni  sociali  ove  si  svolge  la  sua
personalita'. 
    5.1. - Tale norma, come noto, costituisce la  base  stessa  della
tutela dell'immagine di tutti i soggetti di diritto (persone  fisiche
e giuridiche), secondo l'insegnamento della Corte di Cassazione,  che
da tempo (v. le sentenze cc.dd. «gemelle», 31 maggio 2003, nn. 8827 e
8828) ha riconosciuto la piena risarcibilita' ex art.  2059  c.c.,  a
titolo di danno non patrimoniale, di  tutti  i  diritti  fondamentali
della persona costituzionalmente garantiti, chiarendo che la  riserva
di legge prevista dal medesimo art. 2059 deve  essere  estesa,  oltre
all'art. 185 c.p.,  anche  alle  norme  costituzionali  che  tutelano
diritti fondamentali della persona: in primo luogo, appunto, l'art. 2
Cost. 
    Concetti,  questi,  costantemente   ribaditi   dalle   successive
pronunzie della S.C. intervenute  in  materia:  di  recente,  con  la
sentenza 4 giugno 2007, n.  12929,  la  Sezione  III  della  medesima
cassazione ha avuto modo di precisare che «...  anche  nei  confronti
della  persona  giuridica  e  in  genere  dell'ente   collettivo   e'
configurabile  la   risarcibilita'   del   danno   non   patrimoniale
allorquando il fatto lesivo incida su una situazione giuridica  della
persona  giuridica  o  dell'ente  che  sia  equivalente  ai   diritti
fondamentali della persona umana garantiti dalla Costituzione, e  fra
tali diritti rientra l'immagine della persona giuridica o dell'ente»;
in tali casi, prosegue la pronunzia, il danno non  patrimoniale  «...
e' costituito dalla diminuzione della  considerazione  della  persona
giuridica o dell'ente nel che si esprime la sua immagine,  sia  sotto
il profilo della incidenza negativa  che  tale  diminuzione  comporta
nell'agire delle persone  fisiche  che  ricoprano  gli  organi  della
persona giuridica o dell'ente e, quindi,  nell'agire  dell'ente,  sia
sotto il profilo della diminuzione della considerazione da parte  dei
consociati in genere o di settori o categorie di essi con le quali la
persona giuridica o l'ente di norma interagisca.  Il  suddetto  danno
non patrimoniale va liquidato alla persona giuridica  o  all'ente  in
via equitativa, tenendo  conto  di  tutte  le  circostanze  del  caso
concreto». 
    Anche da ultimo, la fondamentale sentenza  11  novembre  2008  n.
26972 delle SS.UU. civili ha affermato in modo netto  che  «Il  danno
non patrimoniale e' risarcibile nei soli casi previsti dalla legge, e
cioe',  secondo   un'interpretazione   costituzionalmente   orientata
dell'art.  2059  cod.  civ.:  (a)  quando  il  fatto   illecito   sia
astrattamente configurabile come reato ...  (b)  quando  ricorra  una
delle fattispecie in cui la legge espressamente consente  il  ristoro
del danno non patrimoniale anche al di fuori di una ipotesi di  reato
(ad es., nel caso di illecito trattamento dei  dati  personali  o  di
violazione delle norme che vietano la discriminazione  razziale)  ...
(c) quando il fatto illecito abbia  violato  in  modo  grave  diritti
inviolabili   della   persona,   come   tali   oggetto   di    tutela
costituzionale; in tal caso la vittima avra' diritto al  risarcimento
del  danno  non  patrimoniale  scaturente  dalla  lesione   di   tali
interessi, che, al  contrario  delle  prime  due  ipotesi,  non  sono
individuati ex ante dalla legge, ma dovranno essere selezionati  caso
per caso dal giudice». 
    La stessa Corte  costituzionale,  con  sentenza  n.  233  dell'11
luglio 2003 -  nel  prendere  atto  del  mutamento  legislativo  (con
l'introduzione di ulteriori casi  di  risarcibilita'  del  danno  non
patrimoniale, estranei alla materia penale:  es.,  art.  2  legge  13
aprile 1988, n.  117  e  art.  2  legge  24  marzo  2001,  n.  89)  e
giurisprudenziale   venutosi   a   realizzare   in   materia   -   ha
autorevolmente concluso che «... Su tale  base,  pertanto,  anche  il
riferimento al "reato" contenuto nell'art. 185 cod. pen., in coerenza
con la diversa funzione assolta dalla norma  impugnata,  non  postula
piu', come si riteneva per il passato, la ricorrenza di una  concreta
fattispecie di reato, ma solo di una fattispecie corrispondente nella
sua oggettivita' all'astratta previsione di una figura di reato». 
    Insomma, l'art. 2059 c.c., cit., laddove prevede il  risarcimento
dei danni non patrimoniali nei soli casi previsti dalla legge, non si
riferisce  solo  alla  fattispecie  penalmente  rilevabili  (come  in
passato  si  riteneva),  ma  fa  rinvio   anche   alle   disposizioni
costituzionali precettive, e non  semplicemente  programmatiche,  che
riconoscono e tutelano i diritti di rango costituzionale,  che  siano
oggettivamente accertabili. 
    Da quanto sopra,  consegue  la  piena  risarcibilita'  del  danno
all'immagine anche di una  pubblica  amministrazione,  ai  sensi  del
combinato disposto dell'art. 2 della Costituzione  e  dell'art.  2059
del codice civile, a prescindere dalla  sussistenza  di  un  illecito
penale. 
    5.2. - Orbene, in tale quadro complessivo, la contestata  novella
pone un limite irragionevole (e, sopra tutto,  incomprensibile)  alla
piena protezione di un primario valore, costituzionalmente  garantito
anche per una figura soggettiva pubblica. 
    Invero, non v'e'  dubbio  che  la  reputazione  di  una  pubblica
amministrazione costituisca un bene rilevantissimo  per  la  funzione
sociale svolta dalla stessa; bene che ha anche un immediato  riflesso
finanziario, non fosse altro per le spese  necessarie  al  ripristino
dell'immagine,  laddove  offuscata  dal  comportamento  illecito   di
funzionari pubblici. 
    La su citata disposizione di cui all'art. 17, comma 30-ter, cit.,
periodi secondo e terzo, ha dunque posto un'evidente restrizione alla
tutela  risarcitoria  del   diritto   all'immagine   della   pubblica
amministrazione, limitandola  ai  casi  di  rilevanza  penale;  anzi,
secondo un'interpretazione ancora piu' severa, ma tuttavia  possibile
e da alcuni giudici patrocinata, ai  casi  di  sola  condanna  penale
irrevocabile e solo per talune fattispecie di reato. 
    In tale quadro, e' indubbia la lesione inferta alla  possibilita'
di una effettiva e piena tutela risarcitoria per gli  enti  pubblici,
con connessa violazione del principio di  cui  all'articolo  2  della
Carta costituzionale. 
    5.3. - Sempre a tale proposito, e' da osservare che il diritto di
una pubblica amministrazione alla tutela della propria immagine trova
la sua garanzia, oltre che nella  generale  disposizione  del  citato
art. 2,  anche  nell'articolo  97  della  Costituzione,  per  cui  e'
interesse costituzionalmente garantito che le competenze  individuate
vengano rispettate, le  funzioni  assegnate  vengano  eseguite  e  le
responsabilita' proprie dei funzionari vengano attivate. Ove l'azione
del pubblico dipendente (o amministratore) leda tale interesse,  essa
si  traduce   in   un'alterazione   dell'identita'   della   pubblica
amministrazione e, piu' ancora, nell'apparire  di  una  sua  immagine
negativa (Corte dei conti, SS.RR., sentenza n. 10/QM  del  23  aprile
2003). 
    Di  conseguenza,  la  contestata   novella   legislativa   appare
contrastare  anche  con  il  su  detto  articolo  97   Cost.,   quale
espressione  del  principio  di   buon   andamento   della   pubblica
amministrazione,   giacche'    essa,    senza    dubbio,    favorisce
l'irresponsabilita' dei dipendenti pubblici,  non  piu'  soggetti  al
giudizio di responsabilita' innanzi alla Corte dei conti in  caso  di
comportamenti illeciti causativi di danno all'immagine  dell'ente  di
riferimento al di fuori delle ipotesi di reato. 
    6. - Le considerazioni appena esposte possono, in qualche misura,
anticipare   un   ulteriore   -   e   fondamentale   -   profilo   di
incostituzionalita' della disposizione  censurata,  la  quale  sembra
violativa anche del principio di ragionevolezza fissato dall'articolo
3 della Carta fondamentale: principio che pone un insuperabile limite
alla  discrezionalita'  del  legislatore,  impedendo   un   esercizio
arbitrario della potesta' normativa. 
    Tale canone, come  noto,  esige  che  le  disposizioni  normative
contenute in atti aventi valore di legge siano adeguate o  congruenti
rispetto al fine  perseguito  dal  legislatore;  ricorre  dunque  una
violazione   della   ragionevolezza   quando   si    riscontri    una
contraddizione all'interno di una  disposizione  legislativa,  oppure
tra essa ed il pubblico interesse perseguito  (Corte  costituzionale,
sentenza n. 325/2005). 
    In altri termini, il giudizio di  ragionevolezza-razionalita'  di
una norma legislativa puo' riguardare due  distinti  profili:  quello
della proporzionalita-adeguatezza «intrinseca» della norma stessa,  e
quello della eguaglianza, intesa come non  ingiustificata  disparita'
di trattamento (ed e'  allora  necessario  il  riferimento  a  tertia
comparationis). 
    Ebbene,  non  dubita  questo  Collegio  che  la  violazione   del
principio ex art. 3 Cost. possa essere qui prospettata  in  relazione
ad entrambi gli aspetti menzionati. 
    6.1.  -  Per  quel  che  concerne  la  ragionevolezza  intrinseca
dell'art. 17, comma 30-ter, periodi secondo e terzo, vale riferirsi a
quanto innanzi  accennato,  circa  la  grave  quanto  incomprensibile
limitazione alla tutela risarcitoria del diritto  all'immagine  della
pubblica amministrazione, posta dalla norma stessa. 
    Per il risarcimento di un danno di tale natura  non  conterebbero
nulla, secondo la norma contestata, ne'  le  caratteristiche  ne'  la
specifica gravita' del comportamento illecito del soggetto agente: un
reato (fosse anche di tenue valenza offensiva) sarebbe  suscettibile,
in tesi e ove ne ricorressero gli elementi, di  causare  una  lesione
dell'immagine dell'ente pubblico; un illecito non  costituente  reato
(magari per profili che nulla hanno a che vedere con la gravita'  del
relativo comportamento dell'agente) in ogni caso no. 
    Sotto tale profilo, il caso all'odierno esame  e'  esemplare:  la
sentenza penale definitiva ha affermato che «il comportamento  tenuto
quella sera dall'ispettore di Polizia ... puo' effettivamente  essere
considerato  come  espressione  di  una  volonta'  prevaricatrice   e
condizionante del pubblico ufficiale», anche se  poi  ha  assolto  il
convenuto dalla contestata imputazione di concussione poiche' mancava
un'adeguata prova  circa  il metus  che  l'atteggiamento  dell'agente
avrebbe dovuto (necessariamente) causare nella vittima.  Insomma,  il
comportamento del convenuto resta lo stesso e cio'  che  ha  escluso,
nella fattispecie, la sussistenza di un reato risiede in un  elemento
esterno a tale comportamento. 
    Ora, fatte naturalmente salve le valutazioni, da riservare ad una
eventuale sede di merito, circa  la  concreta,  specifica  efficienza
dannosa di tale comportamento per la reputazione dell'ente  pubblico,
non sembra a  questo  giudice  logica  ne'  spiegabile,  sotto  alcun
profilo, la scelta del legislatore di ancorare la sussistenza  di  un
(possibile) danno all'immagine pubblica, alla circostanza  che  nella
specie ricorra, o meno un reato (a parita' di  comportamenti).  Anche
qui, puo' essere utile - si ripete, senza anticipare  alcun  giudizio
sul merito della vicenda - un  richiamo  alle  particolari  evenienze
dell'odierna fattispecie, che avrebbe causato un apprezzabile  clamor
fori in ambito locale, proprio in relazione a cio' che  era  accaduto
(il p.m. ha allegato copia del relativo  articolo  di  stampa),  e  a
prescindere dalla circostanza che quei medesimi fatti integrassero, o
meno, una figura di reato. 
    In simili evenienze, la giurisprudenza della Corte costituzionale
ha appunto utilizzato l'art. 3  della  Costituzione  quale  parametro
alla luce del quale sindicare  le  scelte  operate  dal  legislatore,
valutando come irragionevole l'esercizio della  discrezionalita'  che
ad esso deve essere riconosciuta (v., ad es., sentenze n.  78/2005  e
n. 466/2005). 
    Sempre la stessa giurisprudenza  della  Corte  costituzionale  ha
avuto modo  di  precisare  che  un  caso  tipico  di  violazione  del
principio di ragionevolezza e' riscontrabile quando viene dettata una
disciplina che, animata da un determinato fine, finisce per  favorire
pratiche opposte. 
    Cio' e' quanto verificatosi con la norma in argomento,  la  quale
e' stata  inserita  nel  contesto  di  un  corpus  normativo  recante
«provvedimenti anticrisi» (quindi, e' dato presumere, avente lo scopo
di favorire il rilancio dell'occupazione  e  della  produttivita',  e
piu' in generale il recupero di risorse utili per il Paese); essa, al
contrario, non potra' che favorire il lassismo e  l'irresponsabilita'
dei (soli) dipendenti  pubblici,  la  cui  opera  e  professionalita'
dovrebbero invece essere  maggiormente  valorizzate  ed  incentivate,
proprio per contribuire alle  importanti  finalita'  della  normativa
anticrisi. 
    Tra  l'altro,  occorre  evidenziare  un  ulteriore   profilo   di
irrazionalita' dell'art. 17, comma 30-ter, periodi secondo  e  terzo,
in relazione alle recenti norme di  riforma  dell'organizzazione  del
lavoro pubblico, dettate dalla legge delega 4 marzo 2009,  n.  15  le
cui   disposizioni,   non   a    caso,    sono    finalizzate    «...
all'ottimizzazione della produttivita' del  lavoro  pubblico  e  alla
efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni» (dal titolo
stesso della legge); e cio', proprio con la dichiarata  finalita'  di
contribuire -  appunto  -  ad  un  ottimale  utilizzo  delle  risorse
pubbliche. Tale normativa, della quale proprio di  recente  e'  stato
promulgato il primo decreto attuativo, decreto legislativo 27 ottobre
2009, n. 150, coerentemente prevede anche il risarcimento  del  danno
all'immagine   arrecato    all'amministrazione    (con    riferimento
all'ipotesi  di  dipendenti  assenteisti);  ne'   sembra   che   tale
risarcimento, cosi' come concepito  dal  medesimo  legislatore  (cfr.
art.  7,  comma  2,  lett.  «e»  legge  n.  15/2009)  dovesse  essere
necessariamente  riferito  ad  un  reato  accertato.   Pertanto,   la
limitazione  successivamente  ed  inopinatamente   introdotta   dalla
novella di cui al decreto-legge  n.  78/2009,  cit.,  rappresenta  un
contrasto  ancora  piu'  stridente,  secondo  questo   giudice,   con
l'intrinseca razionalita' e coerenza  nell'esercizio  della  funzione
normativa  (v.,  in  terminis,  Corte  costituzionale,  sentenze   n.
341/1994 e n. 508/2000). 
    6.2. - Ulteriore violazione dell'art. 3  Cost.  e'  rappresentata
secondo questo giudice, come prima si accennava, dalla disparita'  di
trattamento  tra  soggetti  che  versano  nella  medesima  situazione
giuridica. 
    Sotto tale riguardo, con l'entrata in vigore  del  ricordato  art
17,   comma   30-ter,   il   danno   all'immagine   della    pubblica
amministrazione (e di essa sola, al contrario di  quanto  accade  per
tutte le altre figure  soggettive)  viene  ad  essere  degradato,  da
figura  autonoma   di   danno   -   conseguenza   -   come   chiarito
dall'autorevolissima, ampia giurisprudenza prima ricordata -  ad  una
marginale figura dipendente di danno da delitto:  in  altri  termini,
cio' che e' tutelato con riferimento ad ogni altra figura soggettiva,
non lo e' se il soggetto leso e' un ente pubblico. 
    Tale scelta normativa, ad  avviso  di  questo  Collegio,  non  ha
alcuna plausibile giustificazione: anzi, la tutela degli interessi  e
delle sostanze pubbliche (quindi, appartenenti alla  generalita'  dei
consociati) dovrebbe essere,  semmai,  piu'  intensa  e  maggiormente
avvertita dal legislatore. 
    Sempre  sotto  il  profilo  di  un'ingiustificata  disparita'  di
trattamento tra  fattispecie  analoghe,  occorre  segnalare  diverso,
irragionevole trattamento cui la  disposizione  contestata  sottopone
soggetti ugualmente legati all'ente pubblico, sia pure  con  rapporti
di servizio di diversa natura (professionale ed onoraria):  la  norma
si rivolge infatti - per il tramite del riferimento all'art. 7  legge
n. 97/2001 - ai soli dipendenti pubblici, con esclusione quindi degli
amministratori ed in genere di coloro che sono legati all'ente da  un
mero rapporto di servizio: ed e' evidente come qui si tratti di norme
di stretta interpretazione, insuscettibili di estensione analogica. 
    Sul punto, gia' la Sezione  giurisdizionale  Campania  di  questa
Corte dei conti, con l'ordinanza  n.  369/2009,  cit.,  ha  posto  in
rilievo l'incoerenza di tale distinzione, che pone tutti i dipendenti
pubblici - e tra di essi quello convenuto nel presente giudizio -  in
posizione di vantaggio rispetto agli amministratori degli  enti  (che
possono invece  essere  perseguiti  per  fattispecie  analoghe),  con
conseguente pregiudizio per l'amministrazione danneggiata,  la  quale
dovra' necessariamente  subire  gli  effetti  pregiudizievoli  di  un
comportamento tenuto dai suoi dipendenti in violazione della legge. 
    Anche con riferimento a tale  aspetto,  puo'  richiamarsi  quanto
affermato in simili evenienze  dalla  giurisprudenza  costituzionale,
che ha sanzionato, con  giudizio  di  incostituzionalita',  norme  di
analogo tenore: v., ex  multis,  Corte  costituzionale,  sentenze  n.
278/2005 e n. 287/2001. 
    7. - La norma del ripetuto art. 17, comma 30-ter viola,  inoltre,
l'articolo 103, comma 2 della Costituzione (che  assegna  alla  Corte
dei conti la giurisdizione nelle materie di  contabilita'  pubblica),
anche in relazione all'articolo 25, secondo cui nessuno  puo'  essere
distolto dal giudice naturale precostituito per legge. 
    Infatti, per le ragioni gia' innanzi esposte, la  limitazione  al
potere  d'azione  del  p.m.  contabile  per  il  ristoro  del   danno
all'immagine (al di fuori dell'ipotesi di connessione con un  reato),
crea  un  indubbio  vulnus  per  la   giurisdizione   relativa   alle
responsabilita'  gestorie,   attribuita   in   via   generale   dalla
Costituzione alla Corte dei conti e indebolisce la  stessa  efficacia
deterrente del giudizio di responsabilita' amministrativa. 
    Peraltro, la norma contestata comporterebbe, con riferimento alle
ipotesi di lesione all'immagine pubblica in  carenza  di  fattispecie
penalmente rilevanti,  la  necessaria  attivazione  di  un  ordinario
giudizio  in  sede  civile  da  parte  dell'amministrazione  pubblica
danneggiata, con una  irrazionale  duplicazione  di  giudizi,  minori
garanzie  per  il  risarcimento -  poiche'  solo  l'azione  dei  p.m.
contabile  e'  pubblica  e  obbligatoria -  e  un  inutile,  maggiore
dispendio  di  risorse  pubbliche,  tenuto  anche  presente  che  nel
giudizio civile non e' possibile giovarsi degli strumenti  deflattivi
del contenzioso contabile, quale il rito c.d. monitorio ex  artt.  49
regio decreto n. 1038/1933 e 55 regio decreto n.  1214/1934:  proprio
l'opposto che la norma costituzionale dell'art. 103, comma 2, mira  a
realizzare  con  la   previsione   di   un   ambito   giurisdizionale
appositamente  «dedicato»  alla  tutela  degli  interessi  finanziari
pubblici. 
    Tale ultima considerazione evoca la possibile  violazione  di  un
altro principio fissato nella Carta costituzionale,  quello  relativo
alla garantita possibilita' di agire in giudizio per  la  tutela  dei
propri diritti e interessi legittimi, di cui all'articolo  24,  primo
comma: l'irrazionale e macchinoso «doppio  binario»  che  l'art.  17,
comma  30-ter  viene  ad  introdurre  per  la  tutela  delle  ragioni
pubbliche, nel caso di danni all'immagine (azione pubblica  del  p.m.
contabile innanzi alla Corte dei conti, se c'e' un  reato;  ordinaria
azione civile innanzi all'AGO azionata, e' da ritenere, dalla  stessa
p.a.,  se  un  reato  non  emerge)  lede,  senza  dubbio,  anche   la
legittimazione ad agire  del  p.m.  contabile,  con  una  presumibile
minore  tutela  dell'Erario,  in  carenza  di  un  organo  dotato  di
strumenti d'indagine e poteri istruttori di cui gli  ordinari  uffici
pubblici certo non possono disporre. 
    8. - Da ultimo, occorre evidenziare la  violazione  dell'articolo
77,  comma  2  Cost.,  in  tema  di  requisiti  per  la  legislazione
d'urgenza. 
    Invero, come anche dedotto dal p.m. in udienza,  la  decretazione
d'urgenza e' stata utilizzata senza che  ricorressero  i  presupposti
costituzionali  di   straordinaria   necessita'   ed   urgenza,   con
l'inserimento della norma interessata, mediante apposito emendamento,
nel testo della legge di conversione. 
    8.1 - A tale ultimo  proposito,  non  ignora  questo  Giudice  le
affermazioni della Corte costituzionale,  di  cui  alla  sentenza  n.
391/1995 (richiamata anche nella successiva ordinanza  n.  429/2007),
secondo  cui  la  valutazione  preliminare  dei   presupposti   della
necessita' e dell'urgenza investe soltanto la fase della decretazione
di urgenza esercitata dal Governo,  «...  ne'  puo'  estendersi  alle
norme che le  Camere,  in  sede  di  conversione  del  decreto-legge,
possano avere introdotto come  disciplina  aggiunta  a  quella  dello
stesso decreto: disciplina imputabile esclusivamente al Parlamento  e
che - a differenza di quella espressa con la  decretazione  d'urgenza
del Governo - non dispone di  una  forza  provvisoria,  ma  viene  ad
assumere la propria efficacia solo al momento dell'entrata in  vigore
della legge di conversione». 
    Pur tuttavia, sembra opportuno tenere presenti le  argomentazioni
di cui alla piu' recente sentenza n. 128 del  2008,  nella  quale  il
medesimo giudice delle leggi sembra avere  rimeditato  la  precedente
posizione avendo infatti  dichiarato  costituzionalmente  illegittima
una disposizione  normativa  inserita  nel  corso  dell'iter  per  la
conversione  di  un  decreto-legge,  il   cui   contenuto   risultava
dissonante con l'epigrafe e le premesse (e, dunque, con le  finalita'
stesse) del decreto medesimo. In tal modo,  la  Corte  costituzionale
sembra avere affermato la necessita' che  anche  gli  emendamenti  al
decreto-legge in sede di conversione  rispettino  i  requisiti  della
straordinaria necessita' e urgenza dell'originario  provvedimento;  e
cio', in coerenza con quanto precisato nella precedente decisione  n.
171 del  2007  (non  a  caso  ampiamente  citata  dalla  sentenza  n.
128/2008), nella  quale  era  stato  chiarito  che  la  mancanza  dei
requisiti di cui all'art. 77 Cost. vizia non solo  il  decreto-legge,
ma anche la relativa legge di conversione. 
    Tale posizione sembra richiamare anche la (diversa) vicenda della
legge di conversione del decreto-legge n. 4 del 25 gennaio 2002,  che
era stato approvato in via definitiva dalla Camera  dei  deputati  il
successivo 26 marzo, e che il  Presidente  della  Repubblica  rinvio'
alle Camere ai sensi  dell'art.  74  Cost.,  lamentando  tra  l'altro
proprio il fatto che al testo originario del  decreto  fossero  state
aggiunte, nel  corso  dell'iter  parlamentare,  una  serie  di  norme
apparse disomogenee e non rispondenti ai requisiti  di  straordinaria
necessita' e urgenza richiesti dall'articolo 77 Cost. 
    Nell'occasione, ha dunque ritenuto il  Capo  dello  Stato  che  i
requisiti costituzionalmente richiesti debbano porsi come  condizioni
di  validita'  dell'atto  anche  con  riferimento  agli   emendamenti
intervenuti in sede di conversione: e cio', allo  scopo  di  impedire
che l'iter di conversione di un decreto-legge possa configurarsi come
una «corsia preferenziale»  per  i  provvedimenti  dell'Esecutivo,  a
scapito del corretto funzionamento dei meccanismi  costituzionalmente
previsti per  l'adozione  delle  leggi  ordinarie.  Tali  conclusioni
emergono  dal  tenore  stesso  del  messaggio  del  Presidente  della
Repubblica: "... Tutto cio' mette in evidenza la  necessita'  che  il
Governo, non soltanto segua criteri  rigorosi  nella  predisposizione
dei decreti-legge, ma vigili, successivamente, nella fase  dell'esame
parlamentare, allo scopo di evitare che  il  testo  originario  venga
trasformato fino a diventare  non  piu'  rispondente  ai  presupposti
costituzionali e ordinamentali sopra richiamati. Tutto cio'  postula,
inoltre, l'esigenza imprescindibile che identica e rigorosa vigilanza
sia esercitata dagli organi delle Camere specificamente preposti alla
produzione legislativa, segnatamente  dalle  Commissioni  competenti,
sia in sede primaria, sia in sede consultiva». 
    8.2 - L'odierna  vicenda,  ad  avviso  di  questo  giudice,  puo'
agevolmente inquadrarsi nei principi appena delineati. 
    Ed invero, si tratta anche in questo  caso  di  un  d.l.  che  il
Governo ha ritenuto di dover adottare «... Ritenuta la  straordinaria
necessita' ed urgenza di emanare  provvedimenti  anticrisi;  ritenuta
altresi'  la  straordinaria  necessita'   ed   urgenza   di   emanare
disposizioni per la  proroga  di  termini  in  scadenza  previsti  da
disposizioni di legge per  consentire  l'attuazione  dei  conseguenti
adempimenti  amministrativi;   ritenuta   infine   la   straordinaria
necessita' ed urgenza di emanare disposizioni volte ad assicurare  la
prosecuzione degli interventi  di  cooperazione  allo  sviluppo  e  a
sostegno dei processi  di  pace  e  di  stabilizzazione,  nonche'  la
proroga della partecipazione del personale delle Forze armate e delle
Forze di polizia alle missioni internazionali»  (testualmente,  dalle
premesse del d.l. 1° luglio 2009, n. 78). 
    Se tali sono le premesse, non pare siano rinvenibili  sufficienti
ragioni ne' di coerenza sistematica, ne' tanto meno di  straordinaria
necessita' o d'urgenza, che potessero legittimare  il  Parlamento  ad
inserire,  nel  corpus   del   d.d.l.   di   conversione   di   detto
decreto-legge, la norma di cui si discute: norma che  nulla  aveva  a
che vedere con le misure cc.dd., «anticrisi», o  con  la  proroga  di
termini in scadenza, ovvero con le missioni militari all'estero;  ne'
sono ravvisabili, pur con tutta la possibile ampiezza interpretativa,
ulteriori e diverse motivazioni di  urgenza  e  indifferibilita'  che
comunque rendessero necessario l'inserimento di  una  norma  di  tale
natura proprio in quel d.d.l. 
    Per le ragioni  sopra  esposte,  il  Collegio  ritiene  opportuno
richiedere lo scrutinio del giudice delle leggi  anche  in  ordine  a
tale ultimo aspetto. 
    9. - In  definitiva,  la  questione  sollevata  con  la  presente
ordinanza appare rilevante ai  fini  della  procedibilita'  e  quindi
della definizione della causa in esame,  nonche'  non  manifestamente
infondata per i motivi in precedenza illustrati.