LA CORTE DEI CONTI Ha pronunziato la seguente ordinanza nel giudizio di responsabilita' iscritto al n. 25693 del registro di segreteria, promosso dal Procuratore regionale avverso il sig. Nicola Amoroso, nato a Domicella (AV) il 20 gennaio 1953, residente in Basiglio (MI), in via Longobardi - Res. Filare n. 412. Visti gli atti e documenti di causa; Uditi, nella pubblica udienza del giorno 19 novembre 2009, il consigliere relatore dott. Piergiorgio Della Ventura ed il sostituto Procuratore generale dott. Gaetano Berretta, non intervenuto e non rappresentato il convenuto. Fatto L'odierna vertenza riguarda una fattispecie di danno erariale, ascrivibile ad avviso del p.m. attore alla condotta dell'ispettore della Polizia di Stato Nicola Amoroso. La vicenda aveva riguardato una serie di episodi nei quali l'interessato, abusando della qualita' e dei poteri di ispettore della Polizia di Stato, aveva ottenuto di poter accedere gratuitamente in locali aperti al pubblico. Questi i fatti. Espone l'atto introduttivo che, nel periodo dicembre 2001-gennaio 2003 che l'ispettore della Polizia di Stato Nicola Amoroso si recava saltuariamente presso il locale «Trattoria Pescatori e Cacciatori» sito in Giussago (fraz. Casatico) nelle serate del sabato sera, per cenare in compagnia di altre persone e poi concludere la serata nella sala da ballo attigua a quella ove venivano consumati i pasti; sala allestita per ballare con la musica di un'orchestrina. I pasti venivano regolarmente saldati, mentre per l'accesso alla sala da ballo l'ispettore aveva la consuetudine di esibire il «cartellino» che lo qualificava come appartenente alla Polizia di Stato, con la motivazione che «non era tenuto a pagare» e di «essere in servizio». L'ispettore della Polizia aveva, altresi', proposto alla titolare del locale di non far pagare il biglietto alle persone in sua compagnia, ma ella non aveva accettato tale richiesta, adducendo che i controlli effettuati dagli addetti Siae avrebbero potuto crearle dei problemi qualora avessero riscontrato che le signore erano prive di biglietto. La titolare del locale asseritamente acconsentiva di non far pagare il biglietto all'ispettore della Polizia di Stato per evitare di litigare. Nella serata del 25 gennaio 2003 l'ispettore Amoroso era nel locale, su invito di un'amica, per festeggiare il compleanno della stessa. Nella medesima serata, dopo aver consumato la pizza nella sala da pranzo l'amica, che aveva invitato l'ispettore e altri amici, provvedeva, ignara della prassi oramai consolidata, ad acquistare per tutti i biglietti di ingresso nella sala da ballo; mentre la compagnia si apprestava ad entrare nella sala, l'ispettore della Polizia si accorgeva che l'amica aveva acquistato un biglietto di ingresso anche per lui e a questo punto, evidentemente risentito, tornava alla cassa dalla titolare del locale e, gettandole il biglietto addosso, inveiva contro la predetta con la seguente frase «io non sono tenuto a pagare il biglietto, lei lo sa meglio di me», aggiungendo, altresi', che «avrebbe fatto chiudere il locale» e che «avrebbe telefonato alla polizia». Con sentenza penale n. 244 del 24 maggio 2006 l'ispettore Amoroso era stato condannato alla pena di anni 1 e 10 mesi di reclusione, con correlativa sospensione condizionale e la non menzione della condanna per il reato di cui all'art. 317 c.p. (concussione), oltre al risarcimento dei danni subiti dalla parte civile a titolo di danno morale per euro 800,00 e a euro 3.500,00 a titolo di rifusione delle spese di costituzione, rappresentanza e difesa, oltre al rimborso delle spese generali e oneri accessori. Con sentenza n. 1428 del 4 febbraio 2009, la Corte d'appello di Milano, in riforma della sentenza di condanna di I grado, assolveva l'imputato, con la motivazione: «il fatto non costituisce reato». Il Procuratore regionale riteneva che dalla vicenda sopra descritta sia derivato un danno patrimoniale indiretto all'Amministrazione, consistente nella perdita di prestigio e lesione di immagine della P.A. - danno che in un primo momento il p.m. stesso aveva quantificato in via equitativa in euro 6.301,00 (pari a tre mensilita' di stipendio decurtato della somma di euro 800,00, quale somma a titolo di risarcimento del danno riconosciuta dal giudice nella sentenza n. 244/2006) - a causa della condotta posta in essere dal menzionato ispettore della Polizia di Stato. Pertanto, con atto del 24 novembre 2008 la medesima Procura regionale rivolgeva al presunto responsabile l'invito a fornire le proprie deduzioni in merito alla vicenda. In data 21 gennaio 2009 e 26 gennaio 2009 sono pervenute le deduzioni difensive, in cui si rappresenta che con sentenza n. 1428, in data 4 febbraio 2009, la Corte d'appello di Milano, in riforma della sentenza di condanna di I grado, ha assolto l'imputato, perche' «il fatto non costituisce reato». In data 1° aprile 2009 si e' svolta l'audizione dell'interessato. In tale sede il sig. Amoroso ha dichiarato a verbale che: «Prima dell'episodio che ha formato oggetto del procedimento penale il sottoscritto era solito frequentare il ristorante "Cacciatori e Pescatori Bertazzi". Tale locale era frequentato da numerosi soci che praticavano la caccia e la pesca a livello amatoriale. Nel tempo si erano formate opposte fazioni che ritenevano di gestire in modo diverso il locale. In particolare uno dei soci, Franco Casarin (oggi deceduto), aveva fatto notare al sottoscritto alcune irregolarita' di carattere amministrativo nella gestione del locale. Il sottoscritto aveva ritenuto doveroso informare il dirigente del proprio ufficio di tale situazione. Proprio a causa di questa denuncia, la proprietaria, sig.ra Bertazzi, in un successivo incontro - dopo due anni circa - lo aveva aspramente criticato e apostrofato come "l'infame". Le successive vicende anche di carattere giudiziario si configurano come una ritorsione nei suoi riguardi». A sostegno di tale descrizione dei fatti, in sede di audizione l'interessato ha depositato ulteriore documentazione: copia della denuncia del 13 marzo 2001 inoltrata dall'ispettore Amoroso al Dirigente del Commissariato di Polizia di Lambrate; copia degli scontrini fiscali relativi all'ingresso nel locale e alle consumazioni effettuate nella giornata oggetto di indagine; copia del verbale di assunzione di informazioni del giorno 8 luglio 2003, ex articoli 391-bis e 391-ter c.p.p. In ordine alle contestazioni formulate con l'invito l'ispettore Amoroso ha proposto le seguenti eccezioni difensive: inammissibilita' del procedimento amministrativo-contabile a seguito di sentenza penale di appello di assoluzione perche' «il fatto non costituisce reato»; insussistenza del danno all'immagine. Le su dette eccezioni e deduzioni difensive non sono state ritenute, dal p.m., idonee a far venire meno la necessita' della citazione in giudizio, che e' stata depositata in data 8 maggio 2009. Per prima cosa, l'atto di citazione si preoccupa di confutare le deduzioni formulate dal convenuto in sede di invito, ove egli afferma l'insussistenza del comportamento dannoso, con riferimento alla sentenza n. 1428/2007 della Corte di Appello di Milano, che lo ha assolto in applicazione dell'art. 530, comma 2, del c.p.p., dal reato ascrittogli perche' «il fatto non costituisce reato»; circostanza che per il convenuto determinerebbe l'inammissibilita' del presente procedimento ammistrativo-contabile. Ricorda in proposito il Procuratore che, secondo gli artt. 652 e 654 c.p.p., il giudicato penale di assoluzione (rispettivamente nell'ambito del giudizio civile di danni - nel caso dell'art. 652 c.p.p. - e nell'ambito degli altri giudizi civili nell'ipotesi di cui all'art. 654 c.p.p) ha effetto preclusivo nel giudizio civile solo quando contenga un effettivo e specifico accertamento circa l'insussistenza del fatto o della partecipazione dell'imputato, e non anche quando l'assoluzione sia determinata dal diverso accertamento dell'insussistenza di sufficienti elementi di prova circa la commissione del fatto o l'attribuibilita' di esso all'imputato e cioe' quando l'assoluzione sia stata pronunziata a norma dell'art. 530, comma 2 c.p.p. (cita Cass. 20 settembre 2006, n. 20325; Cass. 1, 30 agosto 2004, n. 17401; Cass. 19 maggio 2003, n. 7765; Cass. 2 novembre 2000, n. 14328). Inoltre, l'accertamento contenuto in una sentenza penale irrevocabile di assoluzione pronunciata perche' «il fatto non costituisce reato» non avrebbe efficacia di giudicato, ai sensi dell'art. 652 c.p.p., nel giudizio civile di danno, nel quale compete al giudice il potere di accertare autonomamente, con pienezza di cognizione, i fatti dedotti in giudizio, e di pervenire a soluzioni e qualificazioni non vincolate all'esito del processo penale (cita Cass. 14 febbraio 2006, n. 3193; Cass. 26 ottobre 2004, n. 20751). Nel caso di specie, ricorda ancora il p.m., l'ispettore Amoroso e' stato assolto in sede di appello a norma dell'art. 530 c.p.p., comma 2, perche' «il fatto non costituisce reato»; ma tale pronuncia non precluderebbe al giudice contabile di valutare autonomamente il fatto, sotto tutti i profili, nel presente procedimento. Nessuno dubbio sussisterebbe poi sulla imputabilita' della condotta lesiva dell'ispettore della Polizia di Stato: l'esibizione del tesserino, il qualificarsi come «poliziotto» e come tale «in servizio» all'atto di entrare nella sala da ballo avrebbe integrato un comportamento tale da indurre la titolare del locale a fare accedere l'ispettore gratis, nel timore che, se ella avesse insistito a pretendere il pagamento del biglietto, avrebbero potuto derivarne conseguenze negative alla conduzione del locale, come infatti e' avvenuto la prima ed unica sera in cui il biglietto dell'ispettore, sia pure a sua insaputa, era stato pagato. L'ispettore Amoroso, con il proprio comportamento e le esplicite minacce, ha secondo l'Accusa dato corpo a quei timori paventati e sino ad allora scongiurati dalla titolare del locale, soggiacendo all'ingiusta, non altrimenti evitabile, richiesta di non pagare il biglietto. Nel caso in esame, sussisterebbero tutti gli elementi strutturali della fattispecie del danno erariale; Ed infatti, lo svolgimento processo che e' scaturito dalla vicenda ha indubbiamente leso l'immagine della P.A. determinando - nella percezione dei cittadini e degli stessi dipendenti pubblici - il venir meno della fiducia nell'Amministrazione Pubblica. Il relativo danno, che in sede di invito era stato determinato dal p.m. in euro 6.301,00, pari a tre mensilita' di stipendio decurtato della somma di euro 800,00 (riconosciuta a titolo di risarcimento, alla parte offesa, dal giudice penale di primo grado), nell'atto di citazione viene quantificato nella minore somma di euro 4.800,00, pari al sestuplo della somma liquidata in sede civile, ritenendo il p.m. maggiormente valido tale parametro, utilizzato dal giudice ordinario per il risarcimento alla persona offesa dal reato. Tale tipologia di danno, ad avviso del Procuratore, si concretizza nella lesione del bene giuridico «prestigio della P.A.» in se' considerato, non essendo necessario, ai fini della sua configurazione, che si siano prodotte erogazioni di denaro in seguito alla lesione; la stessa giurisprudenza, ricorda, ha affermato che la prova delle spese necessarie al ripristino del danno all'immagine non e' condizione necessaria per ottenere risarcimento del danno subito (cita Corte dei conti, sez. giur. Veneto, 7 novembre 2006, n. 927). Ritiene poi il Requirente che l'atteggiamento psicologico che ha caratterizzato il comportamento del sig. Amoroso rivesta i tratti caratteristici del dolo. Ricorda in proposito il p.m. che l'elemento che caratterizza il dolo e' la previsione e la volonta' dell'evento dannoso, da parte dell'agente, come conseguenza della propria azione od omissione; attualmente e' pacificamente accettata la c.d. teoria della volonta', secondo la quale nella volonta' rientra non solo l'intenzione, ma anche l'accettazione del rischio della causazione dell'evento. Di conseguenza, nel concetto di dolo rientrano sia il dolo diretto (quando la volonta' ha perseguito direttamente l'evento tipico) sia il dolo indiretto (la volonta' non si dirige direttamente verso l'evento, ma l'agente lo accetta come conseguenza eventuale della propria condotta). Nel caso di specie, afferma l'Accusa che il convenuto agi' rappresentandosi la possibilita' che il proprio comportamento potesse determinare una lesione del decoro della P.A. e accetto' il rischio che tale lesione si potesse verificare: sussisterebbe quindi la figura del dolo eventuale. La dinamica degli eventi - collocati in un apprezzabile lasso di tempo - induce il p.m. attore a ritenere che l'Amoroso abbia avuto la chiara percezione dell'illiceita' del proprio comportamento e che tale condotta abusiva potesse ledere l'immagine della Polizia di Stato. Anche se l'immediata intenzione era solo quella di fruire di ingressi gratuiti nella sala da ballo, non potrebbe essergli sfuggito che tale condotta si stava realizzando mediante un uso abusivo della propria qualifica di ispettore della Polizia di Stato: e tale condizione psicologica di accettazione del rischio integra pienamente, sempre ad avviso del Requirente, gli estremi del dolo eventuale. In ogni caso, prosegue la citazione, anche se il convenuto non avesse avuto la convinzione che dal proprio comportamento sarebbe derivato un danno all'immagine, nondimeno la sua realizzazione dovrebbe comunque essergli imputatata a titolo di colpa grave. Con decreto in data 22 maggio 2009, il Presidente di questa Sezione ha determinato l'addebito a carico del convenuto nella somma di € 3.000; cio' in applicazione dell'art. 55 del r.d. 12 luglio 1934, n. 1214, e succ. mod., che prevede la facolta', per il Presidente della Sezione giurisdizionale, di provvedere con il c.d. procedimento monitorio. Con lo stesso provvedimento e' stata fissata, per il caso di mancata accettazione dell'addebito, l'udienza del 19 novembre 2009. Il convenuto con telegramma del 19 luglio 2009, ha dichiarato di non poter pagare. Non ha fatto seguito alcun atto di costituzione in giudizio. All'udienza dibattimentale odierna, assente il convenuto, il p.m. ha ribadito la prospettazione accusatoria di cui in citazione. Ha confermato la sussistenza, nella presente fattispecie, di un danno all'immagine dell'amministrazione pubblica: il comportamento gravemente scorretto del convenuto, che intendeva abusare del proprio status di agente di p.s. per entrare gratis in discoteca, e' indiscusso, come pure e' certa l'eco negativa della vicenda presso l'opinione pubblica locale; e cio', a prescindere dalla sussistenza di un reato. Orbene, prosegue il Requirente, la novella legislativa recentemente intervenuta (art. 17, comma 30-bis del d.l. n. 78/2009, conv. con legge n. 102/2009 e succ. mod.) non consente piu' il perseguimento di tale tipologia di danno erariale in assenza di reato, come nel caso di specie. Eccepisce, pertanto, l'illegittimita' costituzionale di tale disposizione, per violazione di varie norme della Carta fondamentale. Innanzi tutto, viene evocato il contrasto con l'art. 77, comma 2 Cost., poiche' sarebbe stata utilizzata la decretazione d'urgenza senza che ricorressero i presupposti di straordinaria necessita' ed urgenza (a nulla rilevando che, in questo caso, la norma interessata fosse stata inserita nella legge di conversione da un successivo emendamento). Viene denunziata anche la violazione dell'art. 3 Cost., ritenendo il Procuratore che l'art. 17, comma 30-bis cit., violi il canone di razionalita' legislativa, laddove limita solo per talune fattispecie la perseguibilita' di un danno erariale; se poi si volesse intendere che in dette ipotesi il danno resterebbe pur sempre perseguibile, ma innanzi all'A.G.O. allora sarebbe violato l'art.103, comma 2 Cost., sulla giurisdizione della Corte dei conti nelle materie di contabilita' pubblica, come quella in esame. La norma ordinaria e' anche sospettata di violazione dell'art. 24 Cost., poiche' comprime immotivatamente le possibilita' di agire in giudizio per il p.m. contabile. Da ultimo, e' denunziata lesione del principio di cui all'art. 97 Cost., perche' viene limitata la possibilita', per il giudice contabile, di perseguire i fatti dannosi, suscettibili di comportare inefficienza delle strutture pubbliche. D i r i t t o 1. - Il presente giudizio riguarda una fattispecie di danno all'immagine per la pubblica amministrazione (nella specie, quella della pubblica sicurezza) causato, secondo la prospettazione del Procuratore regionale, dalla condotta di un ispettore della Polizia di Stato che, abusando della propria qualita' e dei suoi poteri, pretendeva (e aveva ottenuto) di poter accedere gratuitamente in locali aperti al pubblico. La vicenda aveva condotto ad un giudizio penale per il reato di cui agli artt. 81 e 317 c.p. (concussione), risoltosi con una condanna dell'imputato in primo grado e con l'assoluzione in appello, con la formula «il fatto non costituisce reato». I fatti avevano avuto anche una certa eco sugli organi di stampa. In relazione a cio', la Procura presso questa Sezione regionale aveva attivato il giudizio di responsabilita' nei confronti dell'agente di Polizia interessato, per il ristoro del danno all'immagine che tali episodi avrebbero comportato per l'amministrazione. 2. - E' tuttavia intervenuta, nelle more della decisione del merito, la novella normativa di cui all'art.17, comma 30-ter del decreto-legge lº luglio 2009, n. 78, convertito, con legge 3 agosto 2009, n. 102, come modificato dall'art. 1, comma 1 lettera «c» del decreto-legge 3 agosto 2009, n. 103, convertito, con legge 3 ottobre 2009, n. 141, il quale, ai periodi secondo e seguenti reca testualmente: «Le procure della Corte dei conti esercitano l'azione per il risarcimento del danno all'immagine nei soli casi e nei modi previsti dall'articolo 7 dalla legge 27 marzo 2001, n. 97. A tale ultimo fine, il decorso del termine di prescrizione di cui al comma 2, dell'articolo 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, e' sospeso fino alla conclusione del procedimento penale. Qualunque atto istruttorio o processuale posto in essere in violazione delle disposizioni di cui al presente comma, salvo che sia stata gia' pronunciata sentenza anche non definitiva alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, e' nullo e la relativa nullita' puo' essere fatta valere in ogni momento, da chiunque vi abbia interesse, innanzi alla competente sezione giurisdizionale della Corte dei conti, che decide nel termine perentorio di trenta giorni dal deposito della richiesta». Appare chiaro che tale sopravvenuta disposizione, comunque la si voglia intendere ed interpretare, limita significativamente le possibilita' di intervento del giudice contabile nella materia, ai soli casi e modi contemplati nell'art. 7 della legge n. 97/2001, ai sensi del quale: «La sentenza irrevocabile di condanna pronunciata nei confronti dei dipendenti indicati nell'articolo 3 per i delitti contro la pubblica amministrazione previsti nel capo I del titolo II del libro secondo del codice penale e' comunicata al competente procuratore regionale della Corte dei conti affinche' promuova entro trenta giorni l'eventuale procedimento di responsabilita' per danno erariale nei confronti del condannato. Resta salvo quanto disposto dall'articolo 129 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, approvate con decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271». In altri termini, il legislatore della novella ha stabilito che un danno all'immagine di una struttura pubblica potra' sussistere ed essere perseguibile innanzi a questo giudice contabile, unicamente se derivante da reato: v., al riguardo, la (pur ampia) interpretazione che della norma ha fornito questo stesso giudice nella sentenza n. 641 del 20 ottobre 2009. Se cosi' e' - e non e' revocabile in dubbio che lo sia - al Collegio non resterebbe altro, una volta accertata l'applicabilita' delle nuove norme alla presente vertenza, che declinare la propria giurisdizione in proposito. Pur tuttavia, prima di giungere ad una simile soluzione interpretativa, occorre farsi carico dei dubbi di costituzionalita', richiamati dal p.m. in udienza (ma suscettibili anche di scrutinio ex officio da parte del giudice) che la su riferita disposizione normativa evoca. 3. - A tale proposito, e' necessario innanzi tutto verificare, come gia' accennato, la rilevanza, per il giudizio in corso, della norma in questione. 3.1. - Sotto un primo aspetto - per la verita' non accennato dal p.m., ma che comunque occorre scrutinare - potrebbe sorgere il dubbio sull'effettiva applicabilita' della normativa di cui al decreto-legge n. 78/2009 e successive modifiche al presente giudizio, il quale era pendente gia' prima della sua entrata in vigore: trattasi, in sostanza, di precisare se la norma in esame abbia natura sostanziale o processuale. Al riguardo, e' stato ampiamente chiarito da tutte le pronunzie di questa Corte dei conti sinora intervenute (v., oltre al citato precedente di questa Sezione, anche Corte dei conti, Sezione giurisdizionale Campania, 14 ottobre 2009, n. 369 e 27 ottobre 2009, n. 377; Sezione giurisdizionale Veneto, 14 ottobre 2009, n. 673; Sezione giurisdizionale Sicilia, 14 ottobre 2009, n. 218) che la norma contestata - oltre che influire sui presupposti sostanziali, cioe' sulla configurabilita' stessa del danno all'immagine - incide direttamente sulla legittimazione processuale del Requirente contabile ad agire a tutela delle finanze pubbliche lese dai corrispondenti comportamenti illeciti; e' pertanto evidente il carattere processuale della disposizione, che come tale e' dunque immediatamente applicabile a tutti i giudizi in corso al momento della sua entrata in vigore. Del resto, a confermare tale interpretazione e' sufficiente l'esame del quarto periodo del su riportato comma 30-ter, il quale esclude l'applicabilita' della norma nella sola ipotesi in cui sia stata gia' emessa una sentenza, sia pure non definitiva: per cui, e' evidente che in tutti gli altri casi pendenti, compreso quello in corso, la norma non puo' che applicarsi. 3.2. - E' poi sicuro, come del resto gia' sopra accennato, che alla definizione della presente vertenza non possa pervenirsi indipendentemente dall'utilizzo della disposizione in argomento. Invero, il p.m. regionale ha citato in giudizio il convenuto unicamente per il danno all'immagine, ipotizzato in relazione ad un comportamento che e' certo nella sua materialita', ma del quale e' stata nel contempo espressamente esclusa (con sentenza passata in cosa giudicata) la configurazione penale: dunque, si tratta di una condotta illecita, astrattamente suscettibile di causare un danno di tal genere; tuttavia, l'esistenza in concreto di detto danno dovrebbe ora essere esclusa proprio in virtu' della norma sopravvenuta (la quale, appunto, impedisce in radice che comportamenti illeciti, ma non costituenti reato, possano causare un danno per l'immagine di un ente pubblico). Non vi sono dubbi, in conclusione, della piena sussistenza, per il presente giudizio, della rilevanza della questione di costituzionalita' della norma denunziata. 4. - Occorre, a questo punto, valutare se la questione di costituzionalita' non sia manifestamente infondata, in relazione ai vari profili dedotti dal Requirente o evocabili d'ufficio da questo Giudice. Al riguardo, ritiene invece questo Giudice che le nuove norme, sopra richiamate, si pongano in contrasto con piu' di un principio costituzionale. 5. - Un primo, evidente profilo di incostituzionalita' del citato art. 17, comma 30-ter, periodi secondo e terzo, si pone secondo questo Collegio in relazione all'articolo 2 della Carta fondamentale, il quale riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo sia come singolo che nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalita'. 5.1. - Tale norma, come noto, costituisce la base stessa della tutela dell'immagine di tutti i soggetti di diritto (persone fisiche e giuridiche), secondo l'insegnamento della Corte di Cassazione, che da tempo (v. le sentenze cc.dd. «gemelle», 31 maggio 2003, nn. 8827 e 8828) ha riconosciuto la piena risarcibilita' ex art. 2059 c.c., a titolo di danno non patrimoniale, di tutti i diritti fondamentali della persona costituzionalmente garantiti, chiarendo che la riserva di legge prevista dal medesimo art. 2059 deve essere estesa, oltre all'art. 185 c.p., anche alle norme costituzionali che tutelano diritti fondamentali della persona: in primo luogo, appunto, l'art. 2 Cost. Concetti, questi, costantemente ribaditi dalle successive pronunzie della S.C. intervenute in materia: di recente, con la sentenza 4 giugno 2007, n. 12929, la Sezione III della medesima cassazione ha avuto modo di precisare che «... anche nei confronti della persona giuridica e in genere dell'ente collettivo e' configurabile la risarcibilita' del danno non patrimoniale allorquando il fatto lesivo incida su una situazione giuridica della persona giuridica o dell'ente che sia equivalente ai diritti fondamentali della persona umana garantiti dalla Costituzione, e fra tali diritti rientra l'immagine della persona giuridica o dell'ente»; in tali casi, prosegue la pronunzia, il danno non patrimoniale «... e' costituito dalla diminuzione della considerazione della persona giuridica o dell'ente nel che si esprime la sua immagine, sia sotto il profilo della incidenza negativa che tale diminuzione comporta nell'agire delle persone fisiche che ricoprano gli organi della persona giuridica o dell'ente e, quindi, nell'agire dell'ente, sia sotto il profilo della diminuzione della considerazione da parte dei consociati in genere o di settori o categorie di essi con le quali la persona giuridica o l'ente di norma interagisca. Il suddetto danno non patrimoniale va liquidato alla persona giuridica o all'ente in via equitativa, tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto». Anche da ultimo, la fondamentale sentenza 11 novembre 2008 n. 26972 delle SS.UU. civili ha affermato in modo netto che «Il danno non patrimoniale e' risarcibile nei soli casi previsti dalla legge, e cioe', secondo un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 cod. civ.: (a) quando il fatto illecito sia astrattamente configurabile come reato ... (b) quando ricorra una delle fattispecie in cui la legge espressamente consente il ristoro del danno non patrimoniale anche al di fuori di una ipotesi di reato (ad es., nel caso di illecito trattamento dei dati personali o di violazione delle norme che vietano la discriminazione razziale) ... (c) quando il fatto illecito abbia violato in modo grave diritti inviolabili della persona, come tali oggetto di tutela costituzionale; in tal caso la vittima avra' diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione di tali interessi, che, al contrario delle prime due ipotesi, non sono individuati ex ante dalla legge, ma dovranno essere selezionati caso per caso dal giudice». La stessa Corte costituzionale, con sentenza n. 233 dell'11 luglio 2003 - nel prendere atto del mutamento legislativo (con l'introduzione di ulteriori casi di risarcibilita' del danno non patrimoniale, estranei alla materia penale: es., art. 2 legge 13 aprile 1988, n. 117 e art. 2 legge 24 marzo 2001, n. 89) e giurisprudenziale venutosi a realizzare in materia - ha autorevolmente concluso che «... Su tale base, pertanto, anche il riferimento al "reato" contenuto nell'art. 185 cod. pen., in coerenza con la diversa funzione assolta dalla norma impugnata, non postula piu', come si riteneva per il passato, la ricorrenza di una concreta fattispecie di reato, ma solo di una fattispecie corrispondente nella sua oggettivita' all'astratta previsione di una figura di reato». Insomma, l'art. 2059 c.c., cit., laddove prevede il risarcimento dei danni non patrimoniali nei soli casi previsti dalla legge, non si riferisce solo alla fattispecie penalmente rilevabili (come in passato si riteneva), ma fa rinvio anche alle disposizioni costituzionali precettive, e non semplicemente programmatiche, che riconoscono e tutelano i diritti di rango costituzionale, che siano oggettivamente accertabili. Da quanto sopra, consegue la piena risarcibilita' del danno all'immagine anche di una pubblica amministrazione, ai sensi del combinato disposto dell'art. 2 della Costituzione e dell'art. 2059 del codice civile, a prescindere dalla sussistenza di un illecito penale. 5.2. - Orbene, in tale quadro complessivo, la contestata novella pone un limite irragionevole (e, sopra tutto, incomprensibile) alla piena protezione di un primario valore, costituzionalmente garantito anche per una figura soggettiva pubblica. Invero, non v'e' dubbio che la reputazione di una pubblica amministrazione costituisca un bene rilevantissimo per la funzione sociale svolta dalla stessa; bene che ha anche un immediato riflesso finanziario, non fosse altro per le spese necessarie al ripristino dell'immagine, laddove offuscata dal comportamento illecito di funzionari pubblici. La su citata disposizione di cui all'art. 17, comma 30-ter, cit., periodi secondo e terzo, ha dunque posto un'evidente restrizione alla tutela risarcitoria del diritto all'immagine della pubblica amministrazione, limitandola ai casi di rilevanza penale; anzi, secondo un'interpretazione ancora piu' severa, ma tuttavia possibile e da alcuni giudici patrocinata, ai casi di sola condanna penale irrevocabile e solo per talune fattispecie di reato. In tale quadro, e' indubbia la lesione inferta alla possibilita' di una effettiva e piena tutela risarcitoria per gli enti pubblici, con connessa violazione del principio di cui all'articolo 2 della Carta costituzionale. 5.3. - Sempre a tale proposito, e' da osservare che il diritto di una pubblica amministrazione alla tutela della propria immagine trova la sua garanzia, oltre che nella generale disposizione del citato art. 2, anche nell'articolo 97 della Costituzione, per cui e' interesse costituzionalmente garantito che le competenze individuate vengano rispettate, le funzioni assegnate vengano eseguite e le responsabilita' proprie dei funzionari vengano attivate. Ove l'azione del pubblico dipendente (o amministratore) leda tale interesse, essa si traduce in un'alterazione dell'identita' della pubblica amministrazione e, piu' ancora, nell'apparire di una sua immagine negativa (Corte dei conti, SS.RR., sentenza n. 10/QM del 23 aprile 2003). Di conseguenza, la contestata novella legislativa appare contrastare anche con il su detto articolo 97 Cost., quale espressione del principio di buon andamento della pubblica amministrazione, giacche' essa, senza dubbio, favorisce l'irresponsabilita' dei dipendenti pubblici, non piu' soggetti al giudizio di responsabilita' innanzi alla Corte dei conti in caso di comportamenti illeciti causativi di danno all'immagine dell'ente di riferimento al di fuori delle ipotesi di reato. 6. - Le considerazioni appena esposte possono, in qualche misura, anticipare un ulteriore - e fondamentale - profilo di incostituzionalita' della disposizione censurata, la quale sembra violativa anche del principio di ragionevolezza fissato dall'articolo 3 della Carta fondamentale: principio che pone un insuperabile limite alla discrezionalita' del legislatore, impedendo un esercizio arbitrario della potesta' normativa. Tale canone, come noto, esige che le disposizioni normative contenute in atti aventi valore di legge siano adeguate o congruenti rispetto al fine perseguito dal legislatore; ricorre dunque una violazione della ragionevolezza quando si riscontri una contraddizione all'interno di una disposizione legislativa, oppure tra essa ed il pubblico interesse perseguito (Corte costituzionale, sentenza n. 325/2005). In altri termini, il giudizio di ragionevolezza-razionalita' di una norma legislativa puo' riguardare due distinti profili: quello della proporzionalita-adeguatezza «intrinseca» della norma stessa, e quello della eguaglianza, intesa come non ingiustificata disparita' di trattamento (ed e' allora necessario il riferimento a tertia comparationis). Ebbene, non dubita questo Collegio che la violazione del principio ex art. 3 Cost. possa essere qui prospettata in relazione ad entrambi gli aspetti menzionati. 6.1. - Per quel che concerne la ragionevolezza intrinseca dell'art. 17, comma 30-ter, periodi secondo e terzo, vale riferirsi a quanto innanzi accennato, circa la grave quanto incomprensibile limitazione alla tutela risarcitoria del diritto all'immagine della pubblica amministrazione, posta dalla norma stessa. Per il risarcimento di un danno di tale natura non conterebbero nulla, secondo la norma contestata, ne' le caratteristiche ne' la specifica gravita' del comportamento illecito del soggetto agente: un reato (fosse anche di tenue valenza offensiva) sarebbe suscettibile, in tesi e ove ne ricorressero gli elementi, di causare una lesione dell'immagine dell'ente pubblico; un illecito non costituente reato (magari per profili che nulla hanno a che vedere con la gravita' del relativo comportamento dell'agente) in ogni caso no. Sotto tale profilo, il caso all'odierno esame e' esemplare: la sentenza penale definitiva ha affermato che «il comportamento tenuto quella sera dall'ispettore di Polizia ... puo' effettivamente essere considerato come espressione di una volonta' prevaricatrice e condizionante del pubblico ufficiale», anche se poi ha assolto il convenuto dalla contestata imputazione di concussione poiche' mancava un'adeguata prova circa il metus che l'atteggiamento dell'agente avrebbe dovuto (necessariamente) causare nella vittima. Insomma, il comportamento del convenuto resta lo stesso e cio' che ha escluso, nella fattispecie, la sussistenza di un reato risiede in un elemento esterno a tale comportamento. Ora, fatte naturalmente salve le valutazioni, da riservare ad una eventuale sede di merito, circa la concreta, specifica efficienza dannosa di tale comportamento per la reputazione dell'ente pubblico, non sembra a questo giudice logica ne' spiegabile, sotto alcun profilo, la scelta del legislatore di ancorare la sussistenza di un (possibile) danno all'immagine pubblica, alla circostanza che nella specie ricorra, o meno un reato (a parita' di comportamenti). Anche qui, puo' essere utile - si ripete, senza anticipare alcun giudizio sul merito della vicenda - un richiamo alle particolari evenienze dell'odierna fattispecie, che avrebbe causato un apprezzabile clamor fori in ambito locale, proprio in relazione a cio' che era accaduto (il p.m. ha allegato copia del relativo articolo di stampa), e a prescindere dalla circostanza che quei medesimi fatti integrassero, o meno, una figura di reato. In simili evenienze, la giurisprudenza della Corte costituzionale ha appunto utilizzato l'art. 3 della Costituzione quale parametro alla luce del quale sindicare le scelte operate dal legislatore, valutando come irragionevole l'esercizio della discrezionalita' che ad esso deve essere riconosciuta (v., ad es., sentenze n. 78/2005 e n. 466/2005). Sempre la stessa giurisprudenza della Corte costituzionale ha avuto modo di precisare che un caso tipico di violazione del principio di ragionevolezza e' riscontrabile quando viene dettata una disciplina che, animata da un determinato fine, finisce per favorire pratiche opposte. Cio' e' quanto verificatosi con la norma in argomento, la quale e' stata inserita nel contesto di un corpus normativo recante «provvedimenti anticrisi» (quindi, e' dato presumere, avente lo scopo di favorire il rilancio dell'occupazione e della produttivita', e piu' in generale il recupero di risorse utili per il Paese); essa, al contrario, non potra' che favorire il lassismo e l'irresponsabilita' dei (soli) dipendenti pubblici, la cui opera e professionalita' dovrebbero invece essere maggiormente valorizzate ed incentivate, proprio per contribuire alle importanti finalita' della normativa anticrisi. Tra l'altro, occorre evidenziare un ulteriore profilo di irrazionalita' dell'art. 17, comma 30-ter, periodi secondo e terzo, in relazione alle recenti norme di riforma dell'organizzazione del lavoro pubblico, dettate dalla legge delega 4 marzo 2009, n. 15 le cui disposizioni, non a caso, sono finalizzate «... all'ottimizzazione della produttivita' del lavoro pubblico e alla efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni» (dal titolo stesso della legge); e cio', proprio con la dichiarata finalita' di contribuire - appunto - ad un ottimale utilizzo delle risorse pubbliche. Tale normativa, della quale proprio di recente e' stato promulgato il primo decreto attuativo, decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150, coerentemente prevede anche il risarcimento del danno all'immagine arrecato all'amministrazione (con riferimento all'ipotesi di dipendenti assenteisti); ne' sembra che tale risarcimento, cosi' come concepito dal medesimo legislatore (cfr. art. 7, comma 2, lett. «e» legge n. 15/2009) dovesse essere necessariamente riferito ad un reato accertato. Pertanto, la limitazione successivamente ed inopinatamente introdotta dalla novella di cui al decreto-legge n. 78/2009, cit., rappresenta un contrasto ancora piu' stridente, secondo questo giudice, con l'intrinseca razionalita' e coerenza nell'esercizio della funzione normativa (v., in terminis, Corte costituzionale, sentenze n. 341/1994 e n. 508/2000). 6.2. - Ulteriore violazione dell'art. 3 Cost. e' rappresentata secondo questo giudice, come prima si accennava, dalla disparita' di trattamento tra soggetti che versano nella medesima situazione giuridica. Sotto tale riguardo, con l'entrata in vigore del ricordato art 17, comma 30-ter, il danno all'immagine della pubblica amministrazione (e di essa sola, al contrario di quanto accade per tutte le altre figure soggettive) viene ad essere degradato, da figura autonoma di danno - conseguenza - come chiarito dall'autorevolissima, ampia giurisprudenza prima ricordata - ad una marginale figura dipendente di danno da delitto: in altri termini, cio' che e' tutelato con riferimento ad ogni altra figura soggettiva, non lo e' se il soggetto leso e' un ente pubblico. Tale scelta normativa, ad avviso di questo Collegio, non ha alcuna plausibile giustificazione: anzi, la tutela degli interessi e delle sostanze pubbliche (quindi, appartenenti alla generalita' dei consociati) dovrebbe essere, semmai, piu' intensa e maggiormente avvertita dal legislatore. Sempre sotto il profilo di un'ingiustificata disparita' di trattamento tra fattispecie analoghe, occorre segnalare diverso, irragionevole trattamento cui la disposizione contestata sottopone soggetti ugualmente legati all'ente pubblico, sia pure con rapporti di servizio di diversa natura (professionale ed onoraria): la norma si rivolge infatti - per il tramite del riferimento all'art. 7 legge n. 97/2001 - ai soli dipendenti pubblici, con esclusione quindi degli amministratori ed in genere di coloro che sono legati all'ente da un mero rapporto di servizio: ed e' evidente come qui si tratti di norme di stretta interpretazione, insuscettibili di estensione analogica. Sul punto, gia' la Sezione giurisdizionale Campania di questa Corte dei conti, con l'ordinanza n. 369/2009, cit., ha posto in rilievo l'incoerenza di tale distinzione, che pone tutti i dipendenti pubblici - e tra di essi quello convenuto nel presente giudizio - in posizione di vantaggio rispetto agli amministratori degli enti (che possono invece essere perseguiti per fattispecie analoghe), con conseguente pregiudizio per l'amministrazione danneggiata, la quale dovra' necessariamente subire gli effetti pregiudizievoli di un comportamento tenuto dai suoi dipendenti in violazione della legge. Anche con riferimento a tale aspetto, puo' richiamarsi quanto affermato in simili evenienze dalla giurisprudenza costituzionale, che ha sanzionato, con giudizio di incostituzionalita', norme di analogo tenore: v., ex multis, Corte costituzionale, sentenze n. 278/2005 e n. 287/2001. 7. - La norma del ripetuto art. 17, comma 30-ter viola, inoltre, l'articolo 103, comma 2 della Costituzione (che assegna alla Corte dei conti la giurisdizione nelle materie di contabilita' pubblica), anche in relazione all'articolo 25, secondo cui nessuno puo' essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge. Infatti, per le ragioni gia' innanzi esposte, la limitazione al potere d'azione del p.m. contabile per il ristoro del danno all'immagine (al di fuori dell'ipotesi di connessione con un reato), crea un indubbio vulnus per la giurisdizione relativa alle responsabilita' gestorie, attribuita in via generale dalla Costituzione alla Corte dei conti e indebolisce la stessa efficacia deterrente del giudizio di responsabilita' amministrativa. Peraltro, la norma contestata comporterebbe, con riferimento alle ipotesi di lesione all'immagine pubblica in carenza di fattispecie penalmente rilevanti, la necessaria attivazione di un ordinario giudizio in sede civile da parte dell'amministrazione pubblica danneggiata, con una irrazionale duplicazione di giudizi, minori garanzie per il risarcimento - poiche' solo l'azione dei p.m. contabile e' pubblica e obbligatoria - e un inutile, maggiore dispendio di risorse pubbliche, tenuto anche presente che nel giudizio civile non e' possibile giovarsi degli strumenti deflattivi del contenzioso contabile, quale il rito c.d. monitorio ex artt. 49 regio decreto n. 1038/1933 e 55 regio decreto n. 1214/1934: proprio l'opposto che la norma costituzionale dell'art. 103, comma 2, mira a realizzare con la previsione di un ambito giurisdizionale appositamente «dedicato» alla tutela degli interessi finanziari pubblici. Tale ultima considerazione evoca la possibile violazione di un altro principio fissato nella Carta costituzionale, quello relativo alla garantita possibilita' di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi, di cui all'articolo 24, primo comma: l'irrazionale e macchinoso «doppio binario» che l'art. 17, comma 30-ter viene ad introdurre per la tutela delle ragioni pubbliche, nel caso di danni all'immagine (azione pubblica del p.m. contabile innanzi alla Corte dei conti, se c'e' un reato; ordinaria azione civile innanzi all'AGO azionata, e' da ritenere, dalla stessa p.a., se un reato non emerge) lede, senza dubbio, anche la legittimazione ad agire del p.m. contabile, con una presumibile minore tutela dell'Erario, in carenza di un organo dotato di strumenti d'indagine e poteri istruttori di cui gli ordinari uffici pubblici certo non possono disporre. 8. - Da ultimo, occorre evidenziare la violazione dell'articolo 77, comma 2 Cost., in tema di requisiti per la legislazione d'urgenza. Invero, come anche dedotto dal p.m. in udienza, la decretazione d'urgenza e' stata utilizzata senza che ricorressero i presupposti costituzionali di straordinaria necessita' ed urgenza, con l'inserimento della norma interessata, mediante apposito emendamento, nel testo della legge di conversione. 8.1 - A tale ultimo proposito, non ignora questo Giudice le affermazioni della Corte costituzionale, di cui alla sentenza n. 391/1995 (richiamata anche nella successiva ordinanza n. 429/2007), secondo cui la valutazione preliminare dei presupposti della necessita' e dell'urgenza investe soltanto la fase della decretazione di urgenza esercitata dal Governo, «... ne' puo' estendersi alle norme che le Camere, in sede di conversione del decreto-legge, possano avere introdotto come disciplina aggiunta a quella dello stesso decreto: disciplina imputabile esclusivamente al Parlamento e che - a differenza di quella espressa con la decretazione d'urgenza del Governo - non dispone di una forza provvisoria, ma viene ad assumere la propria efficacia solo al momento dell'entrata in vigore della legge di conversione». Pur tuttavia, sembra opportuno tenere presenti le argomentazioni di cui alla piu' recente sentenza n. 128 del 2008, nella quale il medesimo giudice delle leggi sembra avere rimeditato la precedente posizione avendo infatti dichiarato costituzionalmente illegittima una disposizione normativa inserita nel corso dell'iter per la conversione di un decreto-legge, il cui contenuto risultava dissonante con l'epigrafe e le premesse (e, dunque, con le finalita' stesse) del decreto medesimo. In tal modo, la Corte costituzionale sembra avere affermato la necessita' che anche gli emendamenti al decreto-legge in sede di conversione rispettino i requisiti della straordinaria necessita' e urgenza dell'originario provvedimento; e cio', in coerenza con quanto precisato nella precedente decisione n. 171 del 2007 (non a caso ampiamente citata dalla sentenza n. 128/2008), nella quale era stato chiarito che la mancanza dei requisiti di cui all'art. 77 Cost. vizia non solo il decreto-legge, ma anche la relativa legge di conversione. Tale posizione sembra richiamare anche la (diversa) vicenda della legge di conversione del decreto-legge n. 4 del 25 gennaio 2002, che era stato approvato in via definitiva dalla Camera dei deputati il successivo 26 marzo, e che il Presidente della Repubblica rinvio' alle Camere ai sensi dell'art. 74 Cost., lamentando tra l'altro proprio il fatto che al testo originario del decreto fossero state aggiunte, nel corso dell'iter parlamentare, una serie di norme apparse disomogenee e non rispondenti ai requisiti di straordinaria necessita' e urgenza richiesti dall'articolo 77 Cost. Nell'occasione, ha dunque ritenuto il Capo dello Stato che i requisiti costituzionalmente richiesti debbano porsi come condizioni di validita' dell'atto anche con riferimento agli emendamenti intervenuti in sede di conversione: e cio', allo scopo di impedire che l'iter di conversione di un decreto-legge possa configurarsi come una «corsia preferenziale» per i provvedimenti dell'Esecutivo, a scapito del corretto funzionamento dei meccanismi costituzionalmente previsti per l'adozione delle leggi ordinarie. Tali conclusioni emergono dal tenore stesso del messaggio del Presidente della Repubblica: "... Tutto cio' mette in evidenza la necessita' che il Governo, non soltanto segua criteri rigorosi nella predisposizione dei decreti-legge, ma vigili, successivamente, nella fase dell'esame parlamentare, allo scopo di evitare che il testo originario venga trasformato fino a diventare non piu' rispondente ai presupposti costituzionali e ordinamentali sopra richiamati. Tutto cio' postula, inoltre, l'esigenza imprescindibile che identica e rigorosa vigilanza sia esercitata dagli organi delle Camere specificamente preposti alla produzione legislativa, segnatamente dalle Commissioni competenti, sia in sede primaria, sia in sede consultiva». 8.2 - L'odierna vicenda, ad avviso di questo giudice, puo' agevolmente inquadrarsi nei principi appena delineati. Ed invero, si tratta anche in questo caso di un d.l. che il Governo ha ritenuto di dover adottare «... Ritenuta la straordinaria necessita' ed urgenza di emanare provvedimenti anticrisi; ritenuta altresi' la straordinaria necessita' ed urgenza di emanare disposizioni per la proroga di termini in scadenza previsti da disposizioni di legge per consentire l'attuazione dei conseguenti adempimenti amministrativi; ritenuta infine la straordinaria necessita' ed urgenza di emanare disposizioni volte ad assicurare la prosecuzione degli interventi di cooperazione allo sviluppo e a sostegno dei processi di pace e di stabilizzazione, nonche' la proroga della partecipazione del personale delle Forze armate e delle Forze di polizia alle missioni internazionali» (testualmente, dalle premesse del d.l. 1° luglio 2009, n. 78). Se tali sono le premesse, non pare siano rinvenibili sufficienti ragioni ne' di coerenza sistematica, ne' tanto meno di straordinaria necessita' o d'urgenza, che potessero legittimare il Parlamento ad inserire, nel corpus del d.d.l. di conversione di detto decreto-legge, la norma di cui si discute: norma che nulla aveva a che vedere con le misure cc.dd., «anticrisi», o con la proroga di termini in scadenza, ovvero con le missioni militari all'estero; ne' sono ravvisabili, pur con tutta la possibile ampiezza interpretativa, ulteriori e diverse motivazioni di urgenza e indifferibilita' che comunque rendessero necessario l'inserimento di una norma di tale natura proprio in quel d.d.l. Per le ragioni sopra esposte, il Collegio ritiene opportuno richiedere lo scrutinio del giudice delle leggi anche in ordine a tale ultimo aspetto. 9. - In definitiva, la questione sollevata con la presente ordinanza appare rilevante ai fini della procedibilita' e quindi della definizione della causa in esame, nonche' non manifestamente infondata per i motivi in precedenza illustrati.